content marketing
28 Agosto 2018
Content marketing: prepariamoci al Content Shock

Negli anni Venti il consumo medio di contenuti informativi e pubblicitari era nell’ordine delle 2 ore al giorno. Oggi, quasi un secolo più tardi, parliamo di circa 11 ore al giorno: siamo prossimi al Content Shock, la soglia oltre la quale una persona non può fisiologicamente, né psicologicamente fruire e assorbire ulteriori contenuti.

Nonostante ciò, la quantità di contenuti che ogni giorno vengono creati e messi online continua a crescere, ed è ormai decisamente superiore al tempo disponibile per leggerli. Lo dimostrano i dati relativi a visualizzazioni e interazioni sulla Rete, in costante calo. Secondo Buzzsumo, le pagine WordPress ora online hanno raggiunto un picco nel mese di marzo 2017 con 24,5 miliardi di visualizzazioni, ma da allora le statistiche sono sistematicamente al ribasso. La condivisione di contenuti sui social si è dimezzata, passando da una media di 8 del 2015 a 4 del 2017. Solo i numeri relativi ai video musicali sono rimasti pressoché costanti negli ultimi anni.

Pesa certamente l’esplosione quantitativa di contenuti e la saturazione che caratterizza tutti i temi di maggiore attualità. Nel mondo della tecnologia, ad esempio, è difficile trovare un’azienda che non abbia provato a inseguire trend topic come #IoT, #blockchain, #bitcoin, #AR e simili. Chi produce contenuti legati ad argomenti di tendenza deve considerare che, all’aumentare della competizione sulle stesse parole chiave, i risultati si muovono in modo inversamente proporzionale.

Altra motivazione è l’evoluzione degli algoritmi delle piattaforme social, Facebook in primis, che tendono a penalizzare non solo i post in stile clickbait (questa è tutto sommato una buona notizia), ma anche la potenziale copertura organica di brand ed editori.

Dovremmo allora smettere di creare contenuti, o accontentarci di risultati modesti? No. Piuttosto, il content marketing sembra essere arrivato a un punto di svolta e due sono le considerazioni che possiamo fare. Occorre innanzitutto giocare diversamente le proprie carte e definire con maggior precisione gli obiettivi da raggiungere. Questo permette di studiare delle campagne mirate che, tenuto conto della capacità limitata di fruizione dei nostri interlocutori, usino i canali migliori per coinvolgere un certo numero di persone e, soprattutto, il target giusto. Non si tratta solo di fare post sponsorizzati o pubblicità, ma di attivare in modo strategico tutti gli strumenti che – nel tempo presente – sono a disposizione delle aziende.

L’altro fronte su cui investire è la qualità. Se le performance dei brand sono spesso deludenti, ci sono casi che registrano un aumento di engagement e condivisioni. E non sono soltanto realtà del calibro del National Geographic, l’Harvard Business Review o l’Economist. Molte aziende riescono a proporre contenuti autorevoli e interessanti a un pubblico ben identificato, ottenendo una crescita delle condivisioni ad esempio sul proprio canale LinkedIN fino al 60% anno su anno.

Quando i contenuti sono di qualità, aumenta anche il private sharing, ovvero le condivisioni tramite messaggistica privata (e-mail, Whatsapp, Messenger, ecc.) o piattaforme in cui i link vengono copiati ma non pubblicati. Il private sharing è due volte maggiore rispetto alla condivisione pubblica. Ed è da qui che nascono molte conversazioni di business, che poi è il vero motivo per cui i brand percorrono la via del content marketing.

Skimming e scanning per leggere (e scrivere) sul web

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