psicologia del voto
23 Maggio 2019
Elezioni europee: la psicologia del voto e la comunicazione politica

Questo fine settimana circa 400 milioni di cittadini europei sono chiamati a eleggere il futuro Parlamento UE, ma solo un terzo pensa di andare a votare. L’astensionismo ha precise motivazioni cognitive e psicologiche, che la comunicazione politica cerca di cogliere e indirizzare.

I dati dell’ultimo Eurobarometro per le elezioni ormai imminenti sono molto chiari: solo il 35% dei cittadini europei è sicuro di andare a votare, un terzo probabilmente non andrà, un terzo è ancora indeciso. L’Italia in genere ha un’affluenza superiore alla media degli altri Paesi UE, tuttavia il rischio di un forte aumento dell’astensionismo è concreto. La campagna StavoltaVoto e gli spot ‘Scegli il tuo futuro‘ promossi dallo stesso Parlamento europeo non sono quindi bastati a riavvicinare l’Europa ai suoi elettori, né ad appassionare i Millennials e la Generazione Z che più degli altri sono distanti dalla politica e i partiti.

Se l’astensionismo viene in genere letto in chiave sociologica, è tuttavia possibile isolare e analizzare alcuni elementi cognitivi e psicologici che influenzano la decisione delle persone di esercitare o rinunciare al diritto-dovere di voto. “Passata l’epoca delle grandi ideologie, oggi le scelte elettorali non si fanno semplicemente “di pancia”, perché non ci sono in gioco soltanto le emozioni. Si tratta piuttosto di un voto di reazione”, ha spiegato Riccardo Bettiga, presidente dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia, in una serata dedicata proprio al tema della psicologia del voto.

Quando il voto è reazione – intendendo con questo termine il tipo di risposta che nasce dalle strutture più antiche del cervello umano, dove l’elaborazione delle informazioni è più veloce, ma anche più approssimativa – la scelta del soggetto è altamente volatile, quindi molto difficile da prevedere. Questa dinamica psicologica si inserisce in un contesto in cui la fiducia nei confronti delle istituzioni è ai minimi storici, favorendo la progressiva personalizzazione del voto e l’ascesa di leader più facili da “consumare” in TV o attraverso i social media. Proprio la capacità di cavalcare la sfiducia, pian piano mutata in vero e proprio rancore, spiega in buona parte il consenso che politici come Matteo Salvini hanno saputo aggregare intorno a sé, ha aggiunto Giovanni Diamanti, esperto in storytelling politico, ospite sullo stesso palco.

È possibile invertire, o quanto meno arginare questa tendenza? Non è banale ma, secondo Patrizia Catellani, docente di psicologia politica e sociale all’Università Cattolica di Milano, la politica potrebbe prendere qualche lezione proprio dalla psicologia, partendo dall’idea che “per credere nella politica, ovvero nella possibilità di un buon governo della cosa pubblica, bisogna prima di tutto credere in se stessi”. Il suggerimento è quello di agire innanzitutto sulle cause che generano incertezza e frustrazione a livello economico e sociale, poi di lavorare per aiutare le persone a sviluppare un maggior senso critico, sia attraverso la qualità dell’istruzione e del sistema educativo, sia attraverso un uso più consapevole dei mezzi di informazione, inclusa la Rete.

Occorre anche un nuovo, diverso modo di comunicare la politica, rendendo vicino e visibile ciò che sembra distante e irrilevante (Greta Thunberg dovrebbe averci insegnato come si fa). Ma Catellani esorta anche a non rinunciare ai valori: forse un po’ appannati, non sono scomparsi e l’ancoraggio alla dimensione valoriale – in qualsiasi scelta individuale, compreso il voto – è ancora forte.

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