L’azienda prende posizione, è l’ora del corporate activism

Tenere un basso profilo è stata per molto tempo la scelta dominante delle imprese quando si trattava di politica o argomenti controversi. Ora lo scenario è cambiato, e il corporate activism viene indicato come l’evoluzione della Corporate Social Responsibility

Ci sono imprese che parlano volentieri di responsabilità ambientale e sociale, della loro inclinazione alla filantropia e al mecenatismo. Quando le parole sono seguite (o meglio precedute) dai fatti, queste forme di impegno alimentano la comunicazione e aiutano a costruire una buona reputazione del tempo. Più difficile, almeno fino a pochi anni fa, trovare aziende pronte a dichiararsi a favore del riconoscimento di diritti civili o sostenere apertamente cause importanti: chi lo ha fatto è rimasto quasi sempre dietro le quinte, con il timore di esporsi per non attirare le critiche di clienti e interlocutori sensibili. Solo in pochi casi la comunicazione è stata esplicita, ad esempio per far pressione sull’opinione pubblica perché venissero accolte determinate istanze da parte del legislatore.

Molto però è cambiato. I mutamenti climatici, la parità di genere e i diritti LGBT, il razzismo e i migranti hanno occupato l’agenda politica e le aziende hanno scelto di rompere il silenzio di fronte a provvedimenti ritenuti iniqui o scorretti. Non è puro altruismo, ovviamente. Il corporate activism – da non confondere con l’attività di lobby – nasce piuttosto dalla consapevolezza più profonda del ruolo delle imprese nell’economia e nella società, e delle loro responsabilità nei confronti dei clienti e degli azionisti, ma soprattutto dei dipendenti e delle comunità in cui sono presenti.

“Come posso tacere, se i miei collaboratori vengono discriminati quando usano le toilette pubbliche?”, ha spiegato il CEO di Salesforce, Marc Benioff, quando ha cominciato a denunciare gli attacchi contro le comunità LGBT in alcuni stati USA. La sua azienda è tra il 91% delle Fortune 500 ad avere adottato politiche severe contro le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale.

“Siamo una nazione di immigrati, le cui diverse culture, idee e prospettive hanno contribuito a costruirci e inventarci per oltre 240 anni […] È un tratto distintivo e un vantaggio competitivo del nostro paese, di cui non dobbiamo fare a meno”, ha scritto Jeff Bezos a tutti i collaboratori di Amazon, annunciando la decisione di schierarsi contro l’immigration ban del presidente Trump che limita la possibilità per gli stranieri di vivere e lavorare negli USA.

Sono le persone stesse a chiedere il corporate activism. Secondo uno studio di Global Strategy Group, l’81% degli americani vorrebbe vedere le imprese più impegnate sul fronte sociale, mentre il 76% vorrebbe che esprimessero più chiaramente le proprie convinzioni politiche. Le aziende non possono ignorare questa domanda, tanto più che la loro reputazione si fonda in buona parte sulla capacità di partecipare e contribuire al dibattito pubblico, come sottolineato anche da Reputation Institute.

Il corporate activism ha effetto non solo sulle vendite (alcune ricerche indicano che i clienti tendono a preferire marchi e prodotti di cui condividono valori e battaglie), ma anche sulla selezione di talenti, inclusi manager e dirigenti. Soprattutto se consideriamo le Generazioni Y e Z, parliamo di persone che di fronte a una proposta di impiego valutano di certo la retribuzione e i benefit, però hanno un occhio sempre più attento all’integrità e l’etica del potenziale datore di lavoro.

Tuttavia, quando ci si espone su temi che hanno implicazioni politiche, sindacali, religiose, oppure su temi a forte polarizzazione (come l’utilità dei vaccini), i rischi per l’azienda sono elevati e vanno analizzati con attenzione. Ferrero era ben consapevole delle critiche feroci che avrebbe scatenato quando nel 2016 – in pieno boicottaggio e fermento social – decise di difendere l’uso dell’olio di palma, purché sostenibile. Così come Nike aveva ben calcolato l’impatto della campagna con il testimonial Colin Kaepernick, il quarterback che per primo aveva protestato contro il razzismo durante le partite della National Football League. Una scelta che ha ripagato l’azienda con quasi 6 miliardi di dollari stimati dall’incremento di fatturato e valore azionario, ma in un primo momento ha visto prevalere insulti e commenti decisamente aspri.

Se le persone – in veste di consumatori, dipendenti o investitori – vedono nel corporate activism un’arma in più per influenzare il potere politico ed economico, la decisione dell’impresa o del CEO di scendere in campo deve essere valutata da molti punti di vista, verificando innanzitutto la coerenza tra il ‘dire’ e il ‘fare’ (come insegnano le buone pratiche della Corporate Social Responsibility), la consistenza rispetto alla storia e la cultura aziendale, ma anche di avere spalle abbastanza larghe da reggere l’opposizione che inevitabilmente certe posizioni portano con sè. Maneggiare con cautela, dunque.

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