Il corporate activism in tempo di guerra

“Non è mai stato così essenziale per i CEO avere una voce consistente, un purpose chiaro, una strategia coerente e una visione di lungo periodo. Il purpose della vostra azienda è la stella polare in questo scenario tumultuoso”, ha scritto Larry Fink, CEO di BlackRock, nella lettera 2022 ai CEO. “[Gli stakeholder] non vogliono sentire la nostra opinione di CEO su ogni problema all’ordine del giorno, ma hanno bisogno di sapere come ci posizioniamo rispetto alle questioni sociali che possono influire sul successo delle nostre imprese nel lungo periodo”.

Queste parole sono state pubblicate poche settimane prima dell’invasione russa in Ucraina e suonano incredibilmente appropriate. Le aziende hanno enfatizzato molto il loro contributo alla soluzione delle grandi sfide globali del nostro tempo – ma, nella maggior parte dei casi, il corporate activism era inteso per l’emergenza clima, le questioni sociali, i diritti umani. Schierarsi in un conflitto non era previsto.

Appena scoppiata la guerra in Ucraina, molte imprese hanno espresso preoccupazione e si sono attivate per mettere in salvo i dipendenti, con piani d’emergenza e aiuti economici a sostegno di OGN e associazioni attive sul campo e nei paesi confinanti. Il loro impegno è certamente apprezzato, ma sul tavolo c’è una domanda ben più impegnativa: continuerete ad operare in Russia oppure no?

Le aziende sentono la pressione dei clienti, degli investitori e anche dei loro dipendenti. Lo sgomento, il cordoglio non bastano. Gli stakeholder esterni e interni chiedono una posizione chiara e immediata, ben oltre uno statement o un post sui social.

IKEA è stata tra le prime ad annunciare la sospensione delle attività in Russia e Bielorussia. La lista delle imprese che lasciano la Russia è pubblica – prendiamo ad esempio il monitoraggio del Chief Executive Leadership Institute dell’Università di Yale or l’Ukraine Corporate Index compilato da The Good Lobby e Progressive Shopper – e punta un dito accusatore sulle organizzazioni che hanno grossi interessi in Russia, ma ancora non si sono pronunciate.

Il ritardo nel comunicare fa dubitare della sincerità dell’azienda e vanifica parte del suo impatto. Certo, la decisione di lasciare o restare è fatta di tanti elementi e l’esperto di crisis management Edward Segal ha spiegato che possono esserci molte ragioni diverse dietro una comunicazione poco tempestiva. Alcuni leader possono avere un approccio attendista o essere bloccati dalla complessità della loro organizzazione. Alcuni si preoccupano della sicurezza dei dipendenti russi, che potrebbero essere oggetto di ritorsione, o dell’impatto sulla supply chain e l’indotto locale. Alcuni non vogliono creare aspettative rispetto alla possibilità di schierarsi anche in altri conflitti, presenti e futuri.

Ma oggi il corporate activism è fatto di queste decisioni – gli esperti sostengono che le imprese che lasciano la Russia possono davvero condizionare lo sviluppo degli eventi, soprattutto se continuerà ad aumentare il numero di quelle che disinvestono o se ne vanno.

Non si può più stare da entrambe le parti”, ha titolato Forbes citando il professor Jeffrey Sonnenfeld di Yale. “Tutti vogliamo vivere in pace, ma non si può essere equidistanti”, ha scritto Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera.

In questi tempi sconvolgenti, le aziende devono imparare in fretta le nuove regole del corporate activism. Le decisioni e le relative comunicazioni sono tutt’altro che semplici, e va messo in conto il contraccolpo. “Una cosa è certa – abbiamo letto sul Financial Timesnon schierarsi su questioni politiche, sociali e morali non è più un’opzione”.

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