cattiva notizia amigdala
20 Febbraio 2019
Se la notizia è cattiva

“Nessuno ama colui che porta cattive notizie”, scriveva Sofocle nell’Antigone. Quando l’azienda attraversa un momento di crisi o forte discontinuità, anche il portavoce più preparato può trovarsi in difficoltà. Dalle neuroscienze impariamo a riconoscere e mitigare le reazioni delle persone.

Non è semplice prendere la parola quando i risultati sono negativi, un progetto viene cancellato, uno stabilimento deve essere chiuso o trasferito, si perdono posti di lavoro. Ancora peggio, quando si tratta di incidenti o fatti tragici che travolgono la vita delle persone e delle loro famiglie. A chi riveste un ruolo di leadership viene chiesto di essere pronto ad assumersi l’onere di questo genere di comunicazioni, consapevole che non esista un manuale d’istruzioni da seguire, nè sia sempre possibile trovare il modo di presentare il bicchiere mezzo pieno.

Le neuroscienze ci offrono alcuni strumenti per comprendere meglio l’impatto che una brutta notizia può avere, in particolare come determinati stimoli vengono raccolti ed elaborati dal nostro cervello. In condizioni normali, sono i lobi frontali dell’encefalo le strutture che permettono di sviluppare il pensiero, la creatività e le azioni di ordine superiore. Tuttavia, quando i nostri sensi percepiscono la presenza o la possibilità di un pericolo, entra in gioco l’amigdala, un vero e proprio sistema di allarme che attiva tutti i meccanismi necessari a gestire l’emergenza.

È stato il neurobiologo Joseph LeDoux a studiare il funzionamento dell’amigdala e quello che conosciamo come istinto di sopravvivenza. Semplificando, possiamo dire che, di fronte a una minaccia, la ghiandola prende immediatamente il controllo del lobo frontale, di fatto facendo prevalere l’emozione sulla razionalità. All’amigdala è sufficiente una rappresentazione approssimativa del pericolo, dunque anche poche e generiche informazioni, per innescare tre possibili reazioni, tutte ispirate dalla paura: l’attacco, la fuga oppure il congelamento che, nei casi più gravi, può portare fino allo stato di shock.

Quando è l’amigdala a dettare le regole, l’individuo non è in grado di ragionare in modo logico, nè di ascoltare. Il suo comportamento è condizionato anche dal gruppo, per cui non è infrequente che, se l’assemblea reagisce alla cattiva notizia aggredendo il portavoce, anche una persona in genere mite possa partecipare all’attacco verbale o fisico.

Occorre molta sensibilità ed empatia per riuscire a gestire situazioni di questo tipo, che dovrebbero sempre prevedere un’adeguata fase di preparazione per definire sia i messaggi da veicolare, sia le modalità più opportune per comunicarli. Ove possibile, l’esperienza suggerisce di evitare gli strumenti freddi come l’e-mail, il telefono o la videoconferenza, preferendo invece degli incontri individuali (se il fatto riguarda una o poche persone), oppure collettivi (riunioni e assemblee). Benché più complessa e faticosa per il portavoce, l’interazione faccia a faccia permette di valutare meglio l’impatto della notizia e impostare i passi successivi – difficilmente una cattiva notizia si esaurisce infatti in una singola comunicazione.

Se le circostanze lo consentono, può essere utile applicare la tecnica del ricalco, mutuata dalla PNL, ovvero provare a rispecchiare le espressioni verbali e i gesti dell’interlocutore per rassicurarlo e trasmettergli un senso di maggiore vicinanza. Anche l’utilizzo di domande aperte potrebbe aiutare a riportare il discorso su toni più razionali, stimolando i lobi frontali del cervello che l’amigdala aveva messo all’angolo.

Non va infine sottovalutato il carico emotivo a cui il portavoce stesso è sottoposto: quali reazioni suscita in lui la comunicazione che deve dare? Un sistema spesso efficace per ridurre lo stress è quello di costruire una sorta di cordone di sicurezza, affiancando uno o due colleghi che condividano il pesa della notizia e siano titolati a intervenire in caso di necessità.

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