Perché non dovremmo chiamarla ‘new normal’

La pandemia non è ancora finita e siamo già entrati nella stagione del new normal con la speranza di superare ogni incertezza legata al Covid-19. Ma ha davvero senso ancorarci alla nostra vecchia normalità?

Stiamo vivendo la Fase 3, ancora preoccupati che il virus possa tornare. Senza un vaccino, una terapia definitiva e con lo spettro della recessione, le autorità, i media e anche molte aziende ripetono che sì, non torneremo alla nostra vita precedente, ma dobbiamo guardare al new normal con ottimismo.

Riecheggia la teoria dei frame di Erving Goffman, che aveva studiato il potere delle fonti di informazione nel selezionare immagini, messaggi e stereotipi. Definire una cornice concettuale quando si racconta una storia serve a orientare la comprensione di chi ascolta verso un certo significato – costruendo il suo consenso.

Il new normal è un frame rassicurante: ci dice che le cose non saranno più le stesse (new), ma andranno comunque bene perché ritroveremo la nostra routine e gli standard a cui siamo abituati (normal). Beh, non è proprio così.

Il coronavirus ha innescato cambiamenti profondi dal punto di vista economico, sociale e culturale, che hanno una ricaduta sulle persone, le comunità e le imprese. Alcuni effetti sono temporanei, altri sono destinati a durare. Pensiamo ai comportamenti legati alla salute: appena terminerà l’obbligo di distanziamento sociale e l’uso dei dispositivi di protezione, la maggior parte delle persone si toglierà la mascherina e ricomincerà a stringere le mani, ma l’atteggiamento personale verso la salute e la sicurezza è cambiato in modo irreversibile, perché abbiamo capito che siamo tutti fragili e che le cose possono mettersi male. Da adesso in poi, penseremo sempre alla salute quando viaggeremo, cambieremo lavoro o dovremo prendere qualsiasi altra decisione.

Abbiamo toccato con mano come le tecnologie digitali possono semplificarci la vita, e che è possibile lavorare anche senza andare in ufficio. Prima del Covid-19, secondo l’Istat solo l’1,2% degli italiani lavorava da remoto, ma con la pandemia quasi il 90% delle grandi imprese sopra i 250 addetti ha dovuto ricorrere al lavoro agile o estendere le politiche già in essere. Anche il 37% delle medie aziende e persino il 18% delle piccole ha introdotto il telelavoro. Da adesso in poi, nessun candidato considererà un potenziale datore di lavoro che non consenta qualche forma di flessibilità in termini di orari, smart working o strumenti digitali.

La mobilità urbana sta cambiando, con molte persone a disagio all’idea di usare i mezzi pubblici. Questo potrebbe essere un effetto passeggero, mentre i primi dati del settore immobiliare mostrano che il nostro modo di vivere la casa è diverso da prima. Da adesso in poi, cercheremo appartamenti più grandi dove avere spazio per l’home office, chiederemo un terrazzo o dei balconi per stare un po’ all’aperto. Sogneremo di allontanarci dai centri sovraffollati e pieni di traffico per ridurre il nostro stress.

Il nostro shopping ha sofferto durante il lockdown. Abbiamo evitato ipermercati e centri commerciali nel week-end e nelle ore di punta, abbiamo scoperto l’e-commerce (+55% in Italia solo per il comparto Food&Grocery, dice Netcomm) e i negozi di prossimità. Da adesso in poi, sarà dura rinunciare alla comodità della consegna a domicilio, o al piacere della chiacchierata con il negoziante sotto casa.

Ancora, i nostri acquisti non sono più guidati solo dalle caratteristiche dei prodotti e dal prezzo. La pandemia ci ha fatto alzare lo sguardo sulle marche e le aziende capaci di proteggerci, di agire con responsabilità e impegnarsi per un futuro migliore.

Siamo guidati dalla sostenibilità e dal purpose (i Millennials in particolare). Secondo The RepTrak Company, la pandemia ha accelerato alcune dinamiche già in corso e ha in parte cambiato le variabili che incidono sulla reputazione. Indipendente dalla notorietà, la reputazione è sempre meno influenzata dalla qualità dei prodotti, dalle prestazioni o dal prezzo, e sempre più legata alla capacità dell’azienda di essere un buon datore di lavoro, assicurare solidi risultati economico-finanziari, esprimere una leadership convincente e dare un contributo sulle grandi questioni ambientali e sociali. Oggi sono la trasparenza e l’etica ad avere un peso determinante nella costruzione della reputazione. E questo varrà anche dopo, richiamando le imprese e le marche a far evolvere il modo in cui operano e comunicano.

Dunque, il new normal sembra essere piuttosto diverso dal pre Covid-19. Forse dovremmo sforzarci di abbandonare il frame rassicurante e provare a immaginare qualcosa di davvero new.

C’è dell’altro. Il new normal dice che la nostra normalità va bene, che non vogliamo rinunciarvi. Sì, c’è qualche problema, ma possiamo tenerlo sotto controllo. Tuttavia, se allarghiamo lo sguardo al mondo, dobbiamo riconoscere che la nostra normalità è una condizione a cui la maggior parte delle persone non ha accesso, come sottolinea l’esperto nigeriano di sostenibilità Chime Asonye.

Non dovremmo chiamarla new normal non solo perché questo frame ci limita, ma anche perché ci impedisce di pensare a una trasformazione radicale, alla costruzione di un mondo più sostenibile e inclusivo. Se il normal non ha funzionato per la maggioranza della popolazione mondiale, questo potrebbe essere il momento giusto per definire un nuovo paradigma – per noi e per il bene di tutti.

Brand safety: dall’advertising digitale alle media relations

Brand safety: dall’advertising digitale alle media relations

Il corporate activism in tempo di guerra

Il corporate activism in tempo di guerra

Le Litigation PR per proteggere la reputazione nel processo mediatico

Le Litigation PR per proteggere la reputazione nel processo mediatico

This site is registered on wpml.org as a development site.