Oltre il 90% dei crimini violenti è compiuto da uomini e le donne rappresentano poco più del 4% della popolazione delle carceri italiane, rileva l’associazione Antigone nel suo rapporto sulle donne detenute, pubblicato per la prima volta nel 2023.

Il basso tasso di criminalità femminile è uno dei motivi che spiega perché, fino ad anni recenti, il fenomeno sia stato poco studiato. Alcune teorie, come quella di Freda Adler negli anni Settanta del Novecento, hanno provato a legarla all’emancipazione femminile, ipotizzando che la maggior partecipazione delle donne alla vita sociale e lavorativa aumenti la possibilità di incorrere in comportamenti devianti e, quindi, faccia aumentare la delinquenza femminile. Secondo la criminologa americana, raggiungendo la parità tra i generi avremmo assistito all’equiparazione dei crimini commessi da uomini e donne.

Benché ampiamente smentita dai fatti (anche nelle società più avanzate sui temi della parità, le donne delinquono meno degli uomini, compiono reati meno gravi e hanno meno probabilità di recidiva), questa teoria ha influenzato il modo in cui i media parlano dei reati al femminile. Secondo la scrittrice Giulia Blasi e la videoreporter Rai Amalia De Simone, che al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia hanno condotto un panel dedicato proprio a questo tema, nel racconto mediatico affiorano molto spesso pregiudizi di genere e stereotipi di stampo patriarcale.

L’analisi dei frame narrativi più ricorrenti mostra che la vittima maschile non è quasi mai colpevolizzata, nemmeno quando la violenza si sviluppa in un contesto di accertati abusi e maltrattamenti ai danni della donna. Questo è sensibilmente diverso da ciò che accade quando è lei a subire: per l’uomo carnefice si tendono a dare giustificazioni che diventano moventi (“motivazioni comprensibili” avrebbero mosso Salvatore Montefusco,  condannato a 30 anni di reclusione per un duplice femminicidio), mentre alla donna vittima è spesso imputata una certa dose di corresponsabilità (“se l’è cercata”) con un’attenzione morbosa al suo stile di vita.

Della violenza femminile si indaga poco la causa, molto meno di quanto i media fanno a parti invertite, e quasi mai l’atto è descritto come un raptus (questo frame narrativo è peraltro in calo anche nel racconto della violenza maschile). Se è lei a colpire, la sottolineatura è spesso sulla devianza e l’orientamento sessuale, in particolare nei casi di violenza agita da persone LGBTQ+. Nel descrivere i colpevoli, c’è tanta empatia quando è uomo (himpathy), pochissima quando è donna.

Altro frame comune per descrivere l’autrice della violenza è l’uso di epiteti legati al mondo animale: celebri, ad esempio, i casi della Belva di San Gregorio e delle numerose “mantidi” protagoniste della cronaca nera (la Mantide di Casandrino, la Mantide di Parabiago, la Mantide della Brianza, ecc.). Un meccanismo diverso, ma con effetto analogo, è quello che porta i media a infantilizzare le donne eliminandone il cognome. Leggiamo così “Ergastolo Turetta, le motivazioni” nei titoli sulla sentenza a carico del femminicida Filippo Turetta, ma “Aggressioni acido: 16 anni per Martina, 9 anni e 4 mesi a Magnani” viene usato per Martina Levato e il suo complice.

Sembra tuttora mancare una struttura per interpretare e raccontare la criminalità femminile, ha detto Giulia Blasi chiudendo il panel. Mentre la violenza degli uomini tende a essere normalizzata, i media faticano a trovare le parole per atti e comportamenti commessi da donne che rompono lo schema dell’angelo del focolare, dell’essere fragile ed empatico. La sfida della narrazione della violenza di genere è aperta anche su questo fronte.

 

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