A lezione di Content Studies
L’utente tipico di Internet trascorre online più di 6 ore al giorno, dice il Digital 2024 Global Overview Report di We Are Social. Considerando una media quotidiana di 400 minuti per persona, quest’anno il mondo trascorrerà sul web un totale di 780 trilioni di minuti. Per fare cosa? Comunicare, informarsi, utilizzare servizi di vario tipo, giocare… districandosi tra un’impressionante mole di contenuti che si moltiplicano in Rete di giorno in giorno, di ora in ora, di minuto in minuto.
Non è solo questione di quantità. È cambiato il formato dei contenuti a cui siamo esposti, un mix di testi, immagini, audio, video ed esperienze interattive come i videogiochi. È cambiato il modo in cui questi contenuti vengono prodotti e distribuiti: solo una parte è oggi creata dall’uomo. I nuovi strumenti di Intelligenza Artificiale Generativa (GenAI) hanno infatti reso possibile la produzione automatizzata e su larga scala di contenuti che, grazie allo sviluppo ultrarapido della tecnologia, hanno una qualità sempre più elevata.
Il filosofo Luciano Floridi, che già aveva coniato il neologismo onlife per descrivere il nostro mondo iper-connesso e il superamento della distinzione tra online e offline, parla di una società post-Vitruviana, dove dobbiamo accettare il fatto che non tutti i contenuti e i loro significati siano umani. Dobbiamo cioè riconoscere che l'AI è ora in grado produrre contenuti indistinguibili da quelli umani ma altrettanto validi, dando un senso del tutto nuovo al concetto di autenticità.
Secondo Floridi, le metodologie e le prassi che abbiamo finora usato per governare i contenuti sono oggi insufficienti perché non ci permettono di comprendere le trasformazioni che stiamo vivendo. Nel suo ultimo paper, preparato per il Digital Ethics Center dell’Università di Yale, Floridi getta le basi per quella che potrebbe diventare una nuova disciplina accademica: i Content Studies.
Di cosa si tratta? I Content Studies mettono insieme le conoscenze maturate dalle scienze umane, sociali e computazionali e introducono un metodo innovativo per studiare e modellare il futuro dei contenuti. Avere un unico framework analitico consente, sostiene Floridi, un approccio multidisciplinare molto più solido da applicare all’intero ciclo di vita di un contenuto, che comprende la sua ideazione, la produzione, la distribuzione, il consumo e la possibile trasformazione o manipolazione.
Al di là dell’interesse accademico, sono tante le applicazioni che il professore intravede, dal contrasto della disinformazione all’approfondimento dei pregiudizi algoritmici, dallo sviluppo di materiali educativi più inclusivi alla produzione di notizie di miglior qualità.
La strada per ottenere il consenso e avviare questa nuova disciplina non sarà breve, ma Floridi spera non passi troppo tempo prima di poter andare a lezione di Content Studies. Ci insegnerà a navigare le nuove complessità della creazione e del consumo di contenuti, e a creare una società digitale più etica, inclusiva e informata?
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Le parole giuste
“Ma io intendevo dire….”: trovare le parole giuste per esprimere un concetto o un sentimento non è sempre facile, sia quando la conversazione è personale, sia quando a parlare è il portavoce di un’azienda, un partito o un’istituzione. Dalla difficoltà di far coincidere il nomen (il nome, il termine che si usa) con la res (la cosa che si vuole comunicare) nascono tante incomprensioni, con la necessità – sempre più frequente – di intervenire a posteriori per chiarire il malinteso, correggere una dichiarazione, smorzare l’incendio social che nel frattempo potrebbe essere divampato.
Ma perché non sempre riusciamo a tradurre il nostro pensiero nel linguaggio appropriato? Secondo Confucio, sono tre gli errori che si possono fare quando si parla. Come riassume il filosofo Vito Mancuso nel saggio I quattro maestri, il primo errore da evitare è la precipitazione, cioè la fretta di dire qualcosa quando non è il momento o non se ne sa abbastanza. Il secondo, per certi versi speculare, è l’omissione, in cui si cade quando non si dice quello che si sa benché sia il momento di farlo. C’è poi la cecità, che riguarda l’incapacità di adattare il nostro parlare al contesto e allo stato d’animo di chi ascolta (ovvero di essere in sintonia con il target, volendo usare il lessico del marketing).
La difficoltà di trovare le parole giuste può complicare le relazioni interpersonali, ma le conseguenze possono essere molto serie anche in azienda, a scuola, in piazza, in televisione e sui social. Se è vero che ne uccide più la lingua che la spada, la comunicazione merita di essere gestita sempre con grande senso di responsabilità, valutando accuratamente ciò che si dice, dove, quando e come lo si dice.
Scrive Gianrico Carofiglio in Passeggeri notturni: “Le parole che utilizziamo possono avere un impatto straordinario non solo sulle nostre vite individuali, ma anche su quelle collettive. Le parole creano la realtà, fanno – e disfano – le cose; sono spesso atti di cui bisogna prevedere e fronteggiare le conseguenze, in molti ambiti privati e pubblici”.
Un buon comunicatore dovrebbe saper dare il nome giusto alle cose. Confucio riferiva questa capacità tra le competenze essenziali di ogni politico. Negli Analecta, il testo che secondo la tradizione raccoglie le testimonianze dei suoi insegnamenti, c’è un passo – anche questo riportato da Mancuso – dove un discepolo chiede al maestro quale sarebbe stato il primo provvedimento che avrebbe preso se fosse stato al governo. Confucio non esita a rispondere che la priorità sarebbe stata la rettificazione dei nomi: “Se i nomi non aderiscono al proprio significato, i discorsi saranno privi di rapporto con la realtà; se i discorsi sono privi di rapporto con la realtà, allora ciò che viene realizzato non sarà un vero conseguimento”.
Si è ciò che si comunica.
Sei possibili storie, non una di più
Vladimir Propp lo aveva già spiegato: se osserviamo le fiabe popolari, possiamo riconoscere una serie di elementi narrativi che si ripetono da un testo all'altro, incluse le tipologie e le funzioni dei personaggi, a cui tutti gli autori si rifanno. Un gruppo di ricercatori del Computational Story Lab dell'Università del Vermont ha applicato alcune innovative tecniche di analisi testuale a oltre 1.700 romanzi inglesi, scoprendo che esistono soltanto sei possibili schemi - una sorta di archetipi - dietro qualsiasi costruzione narrativa. Interessante notare che lo studio ha integrato alcuni elementi relativi al sentiment dei testi, lavorando con gli stessi strumenti e metodologie che nel marketing vengono usati per valutare il tono della copertura media o dei post sui social.
Potremmo divertirci insieme a BBC Culture nel selezionare alcune delle storie più celebri di tutti i tempi e vedere in azione la teoria delle sei trame. Scopriremmo così che la Divina Commedia di Dante esemplifica lo schema chiamato 'Dalle stalle alle stelle', raccontando il viaggio immaginario del poeta dall'inferno al paradiso, dall'avversa alla buona sorte. In Madame Bovary di Gustave Flaubert riconosciamo invece la trama opposta, 'Dalle stelle alle stalle', con la protagonista che cade dalla fortuna alla disperazione, fino al tragico finale. Il format 'Icarus' prevede un'ascesa e una ripida discesa, come William Shakespeare ha voluto in Romeo e Giulietta.
Prendiamo Frankenstein di Mary Shelley per capire come funziona ‘Oedipus’, con una caduta seguita da una risalita, poi di nuovo una discesa. Lo schema ‘Cinderella’ – ascesa, caduta, risalita – si ritrova nell'omonima fiaba, ma anche nelle sue rivisitazioni moderne come la commedia romantica Pretty Woman. Infine, l'opera di Jane Austen Orgoglio e Pregiudizio appartiene alla tipologia ‘Man in a hole’ e mostra una dinamica del tipo discesa-risalita. Secondo di ricercatori dell'Università del Vermont, rappresentando ogni storia su un grafico, potremmo ottenere una curva che mostra l'evoluzione emozionale di ogni romanzo, film o dramma costruito su quello schema.
Dobbiamo prendere la teoria delle sei trame come definitiva in fatto di storytelling? Probabilmente no, ma questo è un altro indizio del fatto che non occorre reinventare la ruota per creare una buona storia.
Skimming e scanning per leggere (e scrivere) sul web
Poco più di un pesce rosso. Secondo alcune stime, la soglia massima di concentrazione di un Millennial che legge un articolo online è di circa 9 secondi, mentre i ragazzi della Generazione Z non superano gli 8 secondi. Con questa premessa, creare contenuti testuali che possano interessare e coinvolgere il pubblico sembra un’impresa impossibile.
Alcuni copywriter consigliano di seguire la vecchia regola del KISS, ovvero applicare il principio già usato dalla Marina militare americana negli anni Sessanta che sta per “keep it simple, stupid”. Senza dubbio un buon suggerimento, ma potrebbe valer la pena approfondire le tecniche di lettura che le persone in genere seguono sul web. Se capiamo come i nostri contenuti vengono letti, possiamo intuire come sarebbe meglio scriverli.
Sollecitati in continuazione da tanti media ed esposti a un'impressionante quantità di contenuti (ricordate il content shock?), è arduo pensare di avere tempo ed energie per una lettura approfondita di tutti gli articoli, i documenti e gli altri materiali scritti che abbiamo. La maggior parte delle persone si limita a un'anteprima del testo, cioè a ricavare il messaggio principale attraverso il titolo, le immagini e le didascalie, i sottotitoli e il primo paragrafo. Queste informazioni sono sufficienti per intuire l'intero contenuto in una sorta di esercizio predittivo. Questo è un primo elemento di cui tener conto quando scriviamo o pubblichiamo qualcosa: pensiamo molto bene al titolo, i sottotitoli e il paragrafo d'apertura, e scegliamo con cura le immagini e le didascalie.
Quando attaccano il testo, le persone tendono ad applicare, in genere in modo inconsapevole, le tecniche note come skimming e scanning.
Skimming significa scorrere il testo per comprenderne l'idea centrale. Se ci interessa solo il succo del discorso, non serve leggere tutto, basta focalizzarsi sul titolo e il primo paragrafo (di nuovo), le prime righe dei paragrafi successivi e le conclusioni. Quando vediamo qualcuno che legge il giornale o un articolo online sull'autobus, probabilmente sta facendo skimming.
Lo scanning ha uno scopo diverso, ovvero leggere velocemente alla ricerca di un'informazione specifica, di solito dati, numeri, nomi o citazioni. E' quello che facciamo quando scorriamo un elenco o guardiamo una mappa. Nella lettura di un testo, facendo scanning ci si sofferma su parole o frasi in grassetto, elenchi puntati, dichiarazioni virgolettate.
Se vogliamo catturare la scarsa attenzione di un pubblico ormai abituato a fare skimming o scanning, proviamo a lavorare meglio sui titoli, i sottotitoli e le aperture. Dividiamo il testo in paragrafi brevi, usiamo il grassetto e seguiamo la regola del KISS. Forse sopravviveremo all'effetto TL;DR.
Brand safety: dall’advertising digitale alle media relations
Se con l’advertising tradizionale l’inserzionista può negoziare la posizione delle proprie campagne, nel mondo digitale le cose sono un po’ più complesse. La pubblicità programmatica, ovvero il processo di acquisto e vendita di spazi online attraverso l’uso di software algoritmici, elimina infatti il controllo diretto e puntuale della pianificazione. L’azienda sceglie le caratteristiche del target che vuole raggiungere, non dove e in quale contesto le persone vedranno il suo annuncio.
Proprio il contesto è la parola chiave. Già nel 2017 aziende come AT&T, Verizon, Johnson & Johnson ritirarono centinaia di migliaia di dollari di pubblicità da Google e YouTube perché non volevano le loro campagne apparissero vicino a video inneggianti al terrorismo o sessualmente espliciti. Nel 2020 oltre 150 brand sospesero le inserzioni su Facebook, accusando il social di non fare abbastanza per combattere fake news, contenuti d’odio e razzisti.
La retromarcia dei brand in difesa della loro reputazione ha portato editori e piattaforme a studiare delle contromisure. È nata così la brand safety – nella definizione dell’International Advertising Bureau, si tratta dell’insieme di tecniche e processi che tutelano il marchio nelle sue attività di digital advertising, tenendolo lontano da contenuti inappropriati o comunque distanti dalla sensibilità dell’azienda e dei suoi pubblici di riferimento.
La brand safety utilizza tattiche abbastanza semplici come il blocco delle parole chiave o la creazione di black list con gli indirizzi dei siti non graditi, ma anche sistemi di contextual targeting che analizzano testi, immagini, audio e video per definire se un certo contenuto o ambiente sia sufficientemente sicuro per il brand.
Ma la brand safety non è appannaggio esclusivo dell’advertising. Anche le media relations – che hanno obiettivi e dinamiche del tutto diverse (la differenza è nota, ma meglio ribadirla) – possono porre il problema di come tutelare la reputazione del brand, dell’azienda e del suo management evitando che compaiano in ambienti non sicuri.
Occorre ripartire dai basics. Quando si collabora con un giornalista che sta raccogliendo informazioni per un pezzo, è importante sapere quale media ospiterà la storia, in quale contenitore (trasmissione, rubrica, ecc.) saremo inseriti e chi è la persona con cui stiamo lavorando.
Sembra scontato? Non lo è. Durante un training organizzato per un’associazione di categoria, abbiamo usato la tecnica del mystery auditing e simulato un’inchiesta giornalistica su un tema altamente controverso. Su 34 aziende contattate, 7 hanno accettato di rilasciare un’intervista…. ma nessuno dei 34 referenti si è preoccupato di verificare chi fosse il giornalista (al di là di prendere nota del nome e della rivista per cui dichiarava di scrivere), come stesse affrontando l’argomento, se avesse già sentito altre voci sullo stesso tema.
La domanda più importante è: perché? Cercare di capire l’obiettivo che il giornalista vuole raggiungere consente di offrire un contributo di maggior valore (dare informazioni pertinenti e rilevanti, scegliere il portavoce giusto, selezionare immagini e contenuti, ecc.), a vantaggio anche della relazione che costruiamo, ma soprattutto di mettere a fuoco il contesto e le sue sfumature.
I media non si possono controllare, ma possiamo controllare quello che raccontiamo ai media – in una prospettiva di brand safety e protezione della reputazione.
Il city branding è più di un logo
Quando pensiamo a New York, probabilmente pensiamo a uno dei posti più desiderati al mondo per vivere, lavorare o anche solo da visitare. Ma non era così fino alla metà degli anni Settanta, quando la percezione diffusa era quella di un luogo pericoloso, violento, sporco. Il cambio di rotta è cominciato nel 1976, quando il dipartimento per lo sviluppo economico dello stato di New York affidò al designer Milton Glaser il compito di creare un nuovo logo per stimolare il turismo. Ne uscì il celeberrimo logo ‘I Love NY’, che convinse tutti perché incarnava lo spirito positivo dei newyorkesi e contribuì a ribaltare l’immagine della città. Molti citano questa esperienza come il primo esempio di strategia consapevole di city branding.
Oggi non basta un logo per trasformare una città in un brand. Il city branding deve riuscire a condividere emozioni, cultura e il mindset che le persone vivono, siano residenti, turisti, visitatori o lavoratori in trasferta. Una buona strategia deve portare alla luce la storia della città e i suoi archetipi, la sua identità e il suo presente, ma anche la direzione in cui vuole andare.
Lo ha fatto Porto – il punto dopo il nome della città sottolinea l’assertività della sua gente, mentre il sistema visuale richiama la traduzione delle tipiche piastrelle decorative, le azulejos. Oppure Courmayeur, che ha scelto “Enjoying Italy at its Peak” come promessa e messo insieme la sua variegata offerta turistica – fatta di montagna e sport, relax, shopping e buon cibo – in un logo che rappresenta il versante italiano del Monte Bianco.
Oggi il city branding riguarda meno il turismo e l’accoglienza, e deve concentrarsi di più su temi di ampio respiro come la sicurezza, la crisi climatica, la resilienza urbana. Alle città viene chiesto di dimostrare che si prendono cura delle persone, quindi ci si aspetta che raccontino come garantiscono il diritto alla salute, come curano l’ambiente e usano le risorse naturali, come favoriscono l’inclusione, come attirano talenti e investimenti, e molto altro ancora.
Se le metropoli più grandi hanno sofferto maggiormente la pandemia, proprio loro devono concentrare il marketing e la comunicazione per rinforzare l’idea di essere luoghi sicuri e vivibili, capaci di offrire valore in un momento in cui i viaggi sono limitati e spostarsi in campagna potrebbe voler dire rinunciare a delle opportunità.
Alcuni progetti di city branding sono orientati a coinvolgere i cittadini, (ri)costruendo quartieri e spazi pubblici: è il placemaking, che racconta i luoghi a partire dalle persone, dalle loro attività e passioni – dando al territorio un’identità fisica, culturale e sociale, da far evolvere nel tempo.
Per avere successo, il city branding deve saper esprimere l’essenza della città e cosa vuole diventare in futuro. È una questione di posizionamento – come per aziende e marchi, più è semplice, credibile e rilevante, più è efficace.
Aziende, come continuare ad attrarre talenti
L'occupazione in Italia ha toccato il massimo storico di 23,4 milioni di addetti nella seconda metà del 2019 ma, secondo il Ministero del Lavoro, già i dati preliminari di dicembre e gennaio mostravano segnali di rallentamento. Molti sono infatti i settori che il coronavirus sta mettendo a dura prova – turismo e trasporti sono i due esempi più eclatanti –, con dei contraccolpi destinati ad avere forti ripercussioni sul sistema economico in generale.
La pandemia ha modificato i piani di selezione del personale delle aziende. Se nel breve periodo è inevitabile una frenata delle assunzioni, ad eccezione di poche organizzazioni e figure professionali, nel medio termine cambieranno anche alcune dinamiche nelle relazioni tra chi offre e chi cerca lavoro.
In quale direzione dovranno muoversi i datori di lavoro per continuare ad attrarre talenti? “Uno dei temi sotto i riflettori è lo smart working”, ci spiega Vittorio Nascimbene, fondatore della società di head hunting Ricercamy. “Oggi difficilmente un’azienda viene presa in considerazione da un candidato, tanto junior quanto senior, se non prevede qualche forma di flessibilità organizzativa rispetto agli orari, la presenza in ufficio, gli strumenti di lavoro. Se ne parla da tempo, ma ora è un argomento centrale per le persone in cerca di un impiego, per alcune tanto importante quanto il pacchetto retributivo”.
Altro aspetto in netta accelerazione è il 'purpose driven HR', ovvero l’integrazione del purpose dell’azienda nella strategia di employer branding. “I Millennials, ma non solo, prediligono le imprese che hanno un chiaro ed esplicito scopo sociale, si impegnano sul fronte della sostenibilità ambientale, sono attente alla diversity e l’inclusione”, prosegue Nascimbene.
Per attrarre talenti bisogna inoltre proporre percorsi strutturati di formazione che puntano al rafforzamento delle competenze individuali e di team: i candidati, sempre più attenti al personal branding, sanno infatti che non ci può essere carriera né crescita professionale senza un costante investimento sulle proprie abilità, soprattutto quando si parla di know-how tecnico o digitale, oppure di soft skill come le capacità comunicazionali o di leadership.
La pandemia avrà effetto anche sulle modalità e i canali con cui aziende e candidati interagiscono? Difficile dirlo. In questi anni la selezione del personale ha progressivamente abbandonato gli strumenti cartacei (l’invio del cv a mezzo posta, le inserzioni sui quotidiani) per spostarsi online. Il lancio dei primi portali di job posting, poi di LinkedIN, ha cambiato le regole del gioco, ma si tratta di innovazioni che risalgono ormai a oltre 15 anni fa. La sensazione è che, nonostante i numerosi passi in avanti, nel mercato del lavoro il digitale non sia ancora il luogo perfetto di incontro tra domanda e offerta.
“La tecnologia è matura, ma rispetto ad altri settori dove l’e-commerce è vincente, nel recruitment la componente umana è ancora molto forte, e questo influenza le relazioni tra aziende, head hunter e candidati”, commenta Nascimbene.
Ampliando ancora l’orizzonte temporale, nei prossimi cinque anni il mercato del lavoro tenderà a segmentarsi ancora di più, con le professioni a bassa specializzazione che diventeranno commodity, mentre quelle ad alta specializzazione avranno meccanismi di selezione sempre più sofisticati, in cui gli head hunter continueranno ad avere un ruolo importante.
In entrambi i casi, ma specialmente nel secondo, le imprese dovranno competere per aggiudicarsi i talenti migliori – e un solido progetto di employer branding potrà fare la differenza.
In memoria di Harold Burson
Chi è stato una ‘Burson person’, un po’ lo resta per sempre. In questi giorni in cui si ricorda Harold Burson e il valore della sua eredità professionale e morale, rileggiamo alcune delle sue interviste, diventate nel tempo celebri. Le sue parole sono fonte di ispirazione e motivazione, oggi più che mai.
"Le relazioni pubbliche sono sinonimo di persuasione e credo che il concetto di PR sia stato applicato fin da quando le persone hanno cominciato a comunicare" [PR Week, 2014]
"Le PR hanno due componenti, il comportamento e la comunicazione. Puoi avere la migliore comunicazione del mondo ma, se non mantieni le tue promesse, non raggiungerai lo scopo della tua campagna o del tuo programma" [PR Week, 2014]
“All'inizio, il top management ci diceva: 'Ecco il messaggio, comunicalo'. Poi è diventato: 'Cosa dobbiamo dire?'. Oggi, nelle organizzazioni più evolute, è 'Cosa dobbiamo fare?' ” [Public Relations: Strategies and Tactics]
“Siamo avvocati. Siamo pagati per raccontare la versione del nostro cliente. Siamo pagati per cambiare e modellare gli atteggiamenti, e il nostro successo si misura sulla capacità di muovere l'ago della bilancia, convincere le persone a fare qualcosa. Ma siamo anche la coscienza dei nostri clienti, e dobbiamo fare quello che è nell'interesse del pubblico" [The New York Times, 1984].
Grazie, Harold
Nella foto: Harold Burson a Milano nel 2012, in occasione del 30° anniversario di Burson-Marsteller Italia.
Musei di impresa e marketing esperienziale
“Le organizzazioni sagge non trascurano il passato – lo studiano per usarlo come risorsa e come opportunità”. Così scrive il Washington Post a proposito dei musei di impresa, un investimento che tante aziende scelgono di intraprendere per valorizzare la propria storia, condividere esperienze e memorie, proiettarsi verso il futuro costruendo un ponte tra testimonianza e innovazione. Un fenomeno che trova in Italia un terreno molto fertile: Museimpresa, associazione voluta da Assolombarda e Confindustria, raccoglie oltre 80 musei, archivi e fondazioni (40% sono in Lombardia) che conservano e tutelano l’eredità di altrettante aziende.
Ci sono realtà celebri come il Museo Ducati di Borgo Panigale, il MUMAC – Museo della Macchina per Caffè di Gruppo Cimbali alle porte di Milano, il Museo Fila a Biella o l’Aboca Museum a Sansepolcro. Ma ci sono anche realtà forse meno note, ma di grande successo, come il Museo Nazionale Ferroviario di Pietrarsa a Portici, gestito dalla Fondazione Ferrovie dello Stato, il Museo della Liquirizia “Giorgio Amarelli” a Rossano Calabro, oppure il Museo della Giostra e dello Spettacolo Popolare in provincia di Rovigo, sostenuto dal distretto dei giostrai di Bergantino.
I musei di impresa rispondono alla logica del marketing esperienziale, che mette al centro l’interlocutore creando una situazione e dei contenuti che lo facciano entrare in contatto con la marca a un livello più profondo, con un coinvolgimento anche emozionale. Sono anche un ottimo strumento di content marketing, in particolare di brand heritage marketing perché adatto ad aziende di lunga tradizione, a chi dispone di un buon archivio storico o di valide collezioni documentali, iconografiche o multimediali.
Ma i musei di impresa non sono soltanto volani per il corporate storytelling. Il loro valore va oltre l’azienda e riguarda la costruzione e la divulgazione di quella cultura del ‘saper fare’ decisamente importante nel caso del Made in Italy. Possono inoltre diventare luoghi di formazione per gli studenti e i nuovi talenti dei diversi settori, facendo rete con start up e altri attori locali.
Possono infine contribuire alla promozione del territorio, diventando meta di turismo industriale. I numeri dei musei di impresa sono infatti in continua crescita: Museimpresa stima un totale di 1 milione di visitatori l’anno, con eccellenze quali il Poli Museo della Grappa che attira più di 150 mila persone l’anno, il museo e l’archivio storico della Piaggio a Pontedera che registra quasi 57 mila presenze, il già citato Museo Ducati con una media annua di 40 mila visitatori. In alcuni casi i ritorni economici non sono trascurabili, considerando che il Museo Amarelli della Liquirizia genera ricavi indiretti per un milione di euro, ovvero un quarto del fatturato globale dell’azienda.
Nella foto: un pezzo del Museo Collezione Branca di Milano.
Podcast, il content marketing passa da qui
Cosa c’è dietro il successo di serie come The Daily del New York Times, Morgana di Michela Murgia, La piena di Matteo Caccia o Buio di Pablo Trincia? Il mix vincente è fatto di contenuti originali e di qualità, un buon ambiente sonoro e un marketing mirato.
Il podcast sta conquistando, mese dopo mese, un pubblico sempre più ampio e fedele. In Italia, secondo Nielsen oggi gli ascoltatori sono oltre 12 milioni, in crescita del 16% rispetto all’anno scorso, di cui il 68% ha tra i 25 e i 34 anni. Si ascoltano podcast in auto o sui mezzi pubblici, ma soprattutto a casa (71%), usando gli assistenti vocali ormai molto diffusi. La sessione media di ascolto tende ad allungarsi, superando già i 20-25 minuti.
Il 44% dei fruitori abituali preferisce podcast originali (dunque serie audio native, non trasmissioni radiofoniche on demand), e il 15% è disponibile a pagarli. Proprio per questo la qualità dei contenuti e della produzione audio è un fattore imprescindibile, come ha sottolineato Rossana De Michele, fondatrice di Storie Libere, durante l’ultimo United States of Podcast. “La fruizione dei podcast non è mordi e fuggi come i video. I download ad esempio tendono a superare lo streaming, segno che gli utenti vogliono conservare il contenuto per ascoltarlo più volte, come quando si rilegge un buon libro. Creare contenuti per podcast richiede competenze specifiche, prima fra tutte la capacità di pensare in audio e scrivere per la voce”.
Se i maggiori gruppi editoriali stanno già sperimentando i podcast, non mancano progetti promettenti da parte delle aziende, sempre più interessate all’audio branding e all’integrazione dei podcast nel proprio content marketing.
Ma perché un brand dovrebbe cavalcare quest’onda? “La voce è uno strumento potentissimo perché trasmette autenticità e ispira fiducia, due aspetti che è più difficile costruire con le immagini o sui social”, ha spiegato Francesco Tassi, CEO di ForTune Podcast. “I branded podcast permettono all’azienda di lavorare su formati lunghi e disegnare uno storytelling più ricco e articolato, creando una speciale connessione con il pubblico per veicolare i propri valori distintivi senza parlare direttamente di sé o del prodotto. Inoltre, i podcast innescano il meccanismo della serialità, con un livello superiore di coinvolgimento e fidelizzazione. Non ultimo, sono SEO-friendly, per cui offrono anche il vantaggio della ricercabilità sui motori di ricerca”.
Tra le esperienze italiane più recenti, meritano un ascolto Sbaglio strada e cambio vita di Verti Assicurazioni, Prime svolte di Mini BMW oppure Note di Chianti Classico dell’azienda vinicola Lamole di Lamole.