Le fake news come vaccino contro la disinformazione
Negli ultimi anni sono stati studiati in modo approfondito i meccanismi che favoriscono la creazione di bolle d’opinione, accelerano la circolazione di fake news e fanno cadere nella rete dei cospirazionisti. Ma non è stata ancora identificata una soluzione davvero efficace alla disinformazione: la censura non serve, non basta il debunking, l’alfabetizzazione mediatica è utile ma richiede tempi lunghi.
Se provassimo a usare le stesse fake news? È la strada suggerita dalla teoria dell’inoculazione, elaborata più di 50 anni fa dallo psicologo sociale William J. McGuire, esperto di persuasione. McGuire cominciò studiando alcuni prigionieri americani che, al termine della Guerra di Corea, scelsero volontariamente di restare con i loro carcerieri. Da qui indagò cosa può indurre la resistenza alla persuasione, ovvero quei fattori che rendono un atteggiamento o un’opinione talmente forte da essere impermeabile a qualsiasi contro-narrazione.
Il meccanismo ipotizzato da McGuire ricalca il funzionamento dei vaccini. Semplificando, possiamo dire che, per proteggerci da una patologia come l’influenza, ci viene somministrato un vaccino che contiene i ceppi più virulenti previsti nella prossima stagione in una versione indebolita, ma abbastanza aggressiva da stimolare la risposta del nostro sistema immunitario e la produzione dei necessari anticorpi. Allo stesso modo, la teoria suggerisce di inoculare delle persone delle versioni indebolite delle storie che potrebbero mettere in crisi una certa convinzione, così da indurle a crearsi degli ‘anticorpi mentali’ che si attiveranno quando arriverà l’attacco vero e proprio.
La teoria è stata sperimentata varie volte in ambito politico e sociologico, ma un paper recente a cura di Josh Compton, Sander van der Linden, John Cook e Melisa Basol riporta molti esempi in cui è stata usata – con successo – per generare resistenza contro la disinformazione scientifica.
Prendiamo i cambiamenti climatici: sebbene la comunità scientifica sia ampiamente d’accordo sulle cause e gli effetti del riscaldamento globale, non manca chi dichiara il contrario, sostenendo che migliaia di scienziati negano l’emergenza clima. Alcuni ricercatori hanno provato a diffondere delle fake news controllate, mostrando ad un gruppo di persone una petizione negazionista firmata da 31.000 esperti, ad un altro gruppo la stessa petizione, suggerendo però che molti dei firmatari erano falsi e che 31.000 rappresenta una quota insignificante dei laureati in materie scientifiche negli USA. Entrambe le inoculazioni si sono rivelate efficaci, perché i partecipanti all’esperimento hanno mantenuto salde le proprie convinzioni pro-scienza. Risultati simili sono stati ottenuti in repliche successive con setting diversi, sempre verificando il rafforzamento delle posizioni sul consenso scientifico rispetto ai cambiamenti climatici.
La teoria dell’inoculazione sembra funzionare anche nel creare resistenza contro le pressioni No Vax: lo hanno dimostrato degli esperimenti condotti su giovani donne favorevoli al vaccino anti-HPV e su un campione di genitori alle prese con la vaccinazione dei loro bambini. Sottoposti a messaggi con allarmi crescenti sulla sicurezza e l'efficacia dei vaccini, di fronte all’attacco finale non hanno rinunciato all’immunizzazione.
In altri studi legati a questioni scientifiche controverse, come la fiducia dei consumatori nelle biotecnologie agricole o la necessità di ricorrere alla sperimentazione sugli animali per determinate ricerche scientifiche, l'inoculazione controllata di fake news si è rivelata in grado di aumentare le difese delle persone rispetto a tentativi di manipolazione, sia basati su argomentazioni razionali, sia emotive.
L’approccio non è, ovviamente, esente da qualche perplessità e mancano al momento sperimentazioni tanto estese da poterlo ritenere valido al 100%. I dubbi più rilevanti riguardano il tipo di fake news da utilizzare e il momento in cui diffonderle (meglio in via preventiva, come profilassi, oppure in una fase successiva, come terapia alla disinformazione?), il target a cui indirizzarle (sono efficaci solo sull’audience diretta, oppure hanno un effetto alone sui destinatari passivi?) e, soprattutto, la fonte dell’inoculazione (chi dovrebbe agire e a quale titolo?).
Resta comunque il fatto che questa teoria suggerisce un modo inedito di generare una sorta di ‘immunità di gregge’ in specifiche comunità di persone, aumentando la loro resistenza contro la disinformazione. Se è vero che le fake news si diffondono e si replicano più velocemente delle notizie vere, le campagne che ambiscono a sollecitare atteggiamenti pro-sociali e pro-scientifici potrebbe tentare anche questa strada, formando opinion leader con convinzioni così salde da sapersi difendere dalle contro-argomentazioni – e magari diventare influencer.
Disinformazione, dati e verità
Tra marzo e dicembre 2020, il Covid-19 ha occupato quasi l’85% dello spazio disponibile sui media italiani. Se si considerano le sole notizie circolate online, il peso della disinformazione non è mai sceso al di sotto del 4,3%, con picchi vicini al 7% nel mese di febbraio 2020 e del 6% in maggio. Rispetto invece ai contenuti social, il tasso di disinformazione ha spesso superato il 10%, arrivando al 13% nell’ultima settimana dello scorso maggio.
Nonostante i molti sforzi compiuti dalle istituzioni, dalla comunità scientifica, dai media e dalle piattaforme, non si è dunque riusciti ad arginare l’infodemia che ha accompagnato la diffusione del coronavirus, con gli individui – e spesso anche i decisori pubblici – sempre più chiusi all’interno di vere e proprie bolle informative.
“Sappiamo che gli algoritmi hanno un ruolo determinante nella creazione di echo chamber in cui le opinioni sono fortemente polarizzate. Ma il problema non è solo comprendere i meccanismi per cui le bolle si formano e come romperne il circolo vizioso, dobbiamo oggi interrogarci sull’effetto che i dati stanno avendo sulla nostra società, la politica e l’economia”, ha sottolineato il professor Walter Quattrociocchi in occasione della presentazione del nuovo Center of Data Science and Complexity for Society dell’Università Sapienza di Roma.
L’infodemia e la sovrabbondanza di dati rende sempre più difficile distinguere il vero dal falso, fin quasi a mettere in discussione la definizione stessa di verità. “La libertà di espressione deve continuare a essere garantita, ovviamente nei limiti previsti dalla legge. Ma su quale base decidiamo che un’informazione è vera? Possiamo lasciare che siano le piattaforme o chi si propone come debunker a stabilirlo?”, ha chiesto Antonello Giacomelli, commissario di AGCOM, commentando la rimozione di 7 milioni di post fake da parte di Facebook, o la sospensione permanente dell’account di Donald Trump da parte di Twitter.
La maggior parte delle fonti prova a contrastare la disinformazione mettendo ancora più dati al centro del dibattito, nella convinzione che numeri, fatti ed evidenze oggettive siano sufficienti per smascherare fake news e complotti.
Ahinoi, non è proprio così. Un recentissimo studio del MIT ha dimostrato che gli stessi dati possono essere usati per sostenere tesi diametralmente opposte: è accaduto con le statistiche Covid-19, i ricercatori hanno trovato i medesimi numeri citati in modo strumentale tanto dagli allarmisti quanto dai negazionisti.
Il corretto utilizzo dei dati è dunque una questione per nulla banale. “Bisogna innanzitutto partire da dati accurati e di buona qualità, cosa che non dobbiamo dare per scontata”, ha aggiunto Marco Cattaneo, direttore de Le Scienze. “Servono poi competenze specifiche per saperli correlare e interpretare, insieme a una certa dose di senso critico e, ancora più importante, un grande senso di responsabilità”.
Mettere tanti, troppi dati a disposizione di tutti non sembra dunque l’antidoto giusto alla disinformazione, piuttosto un boomerang dai possibili effetti pericolosi. Lo sa bene una bella fetta di quell’84% di giornalisti italiani che, a prescindere dal settore di provenienza, nell’ultimo anno si sono trovati a scrivere di virus e pandemia.
Complottista sarà lei, o forse io
Cominciò negli Stati Uniti negli anni ‘60 per trovare i mandanti occulti dell'assassinio di JFK. Da lì in poi abbiamo visto narrazioni alternative sui temi più disparati, sostenute da argomentazioni che possono sembrare fantasiose ma, in tanti casi, resistono nel tempo e riescono ad aggregare un numero anche ragguardevole di persone.
Esiste una teoria del complotto per tutto. Dalla vera natura delle scie chimiche ai responsabili degli attacchi dell’11 settembre, dalla morte di Lady Diana alle lotte per costituire un Nuovo Ordine Mondiale, il cospirazionismo trova terreno fertile ovunque ci sia un fatto o un fenomeno dai contorni anche minimamente sfumati.
La pandemia ha offerto parecchio materiale su cui lavorare, peggiorando l’infodemia con presunti intrighi globali sull’origine del virus, gli interessi nascosti dietro ai vaccini, l’ombra lunga del ‘sistema’ sulle decisioni relative ai vari lockdown. Fossero solo chiacchiere social, forse potremmo lasciarle dove sono. Ma sempre più queste teorie sono pericolose perché producono effetti nel mondo reale orientando i comportamenti delle persone, che ad esempio rifiutano di indossare la mascherina o farsi vaccinare. Oppure assaltano Capitol Hill a Washinton.
È abbastanza facile riconoscere un complottista: in genere parla di ‘poteri forti’ e piani segreti per conquistare o distruggere il mondo, verità occultate e prove distrutte dai responsabili che non vogliono essere scoperti, media complici perché non danno spazio e credito alla teoria. Chiunque neghi l’esistenza del complotto è additato come ignorante, succube della cultura dominante, se non addirittura fiancheggiatore del complotto stesso.
Ma se è così semplice identificare una teoria del complotto, perché non basta svelare l’inganno per metterlo a tacere? La verità non dovrebbe essere più forte di qualsiasi obiezione?
“Siamo davvero nel pieno dell’epoca della post-verità, non ha più senso parlare di vero e falso su argomenti in cui le opinioni sono fortemente polarizzate. Ci sono narrazioni mainstream e narrazioni alternative, le fake news possono esistere da entrambe le parti”, ha spiegato Walter Quattrociocchi, professore associato presso l'Università Sapienza di Roma, che su LinkedIN scrive: “Spesso ci viene chiesto cosa dobbiamo fare per uscire da queste dinamiche di polarizzazione in cui ognuno pensa di aver ragione e nessuno ascolta. La risposta è sempre la stessa. Stiamo cercando di capirlo”.
Una delle strategie più usate per smontare bufale e complotti – ovvero il debunking – sta mostrando tutti i suoi limiti perché lavora quasi esclusivamente su un piano razionale, portando dati, esempi ed elementi fattuali che contraddicono la teoria cospirazionista e ne fanno cadere i presupposti. Ma i teorici del complotto lavorano su un piano ben diverso e molto più profondo.
In un recente intervento su La Repubblica, Anna Ichino dell’Università degli Studi di Milano e Lisa Bortolotti della University of Birmingham hanno precisato che i tratti caratteristici del pensiero complottista rispondono a bisogni psicologici che noi tutti abbiamo, come il bisogno epistemico di avere spiegazioni e certezze su quello che accade intorno a noi, il bisogno di controllare la realtà e assegnare responsabilità (soprattutto colpe), il bisogno di sconfiggere la solitudine e la paura facendo parte di un gruppo. Magari un gruppo un po’ controcorrente, che ci illuda di essere speciali e avere accesso a verità nascoste, destinate a pochi eletti.
Siamo meno razionali di quanto pensiamo di essere, anche se non lo ammettiamo volentieri. Per questo non è così remota la possibilità di rimanere affascinati, prima o poi, da una qualche forma di teoria del complotto, che gioca appunto su meccanismi cognitivi universali e allontana i debunker come dei guastafeste, che vogliono rompere la bolla all’interno della quale ci isoliamo.
Poiché negazionismo e cospirazionismo tendono a proliferare in ambienti disagiati o di svantaggio, le due ricercatrici indicano nel rafforzamento della coesione sociale e dei valori di comunità una possibile via d’uscita, da accompagnare a interventi mirati per ridurre le diseguaglianze e ristabilire la fiducia nelle istituzioni.
Interessante anche lo spunto del collettivo di scrittori Wu Ming, che già nel 2018 su Internazionale auspicava l’avvento di nuove pratiche di debunking capaci di riconoscere i bisogni intercettati dal complottismo e affrontare in modo diverso il problema della verità. Immaginando il debunker come un prestigiatore, l'idea è quella di smontare un complotto senza deludere chi ci ha creduto, come “rivelare il trucco dietro un numero di magia senza rovinarne l’incanto, anzi, amplificando il senso di meraviglia, ma spostandolo su un piano di maggiore consapevolezza: dal semplice stupore per l’effetto al più complesso stupore per le tecniche utilizzate e il grande impegno necessario a far riuscire il trucco”.
Opinioni, algoritmi e filter bubble
La promessa del World Wide Web – quella di diffondere informazione e conoscenza, rendere il sapere accessibile a tutti, favorire la comunicazione e il pluralismo – è stata in larga parte tradita. L’effetto combinato di diversi fenomeni, tra i quali il più rilevante è l’avvento dei social media, ha trasformato la Rete in una dimensione in cui le opinioni sono sempre più polarizzate e pericolosamente aderenti a quello con cui già siamo d’accordo.
La materia grezza sono le tracce che, più o meno consapevolmente, disseminiamo online ogni volta che cerchiamo qualcosa su Google, mettiamo un like su Facebook, compriamo su Amazon, scriviamo una recensione su Tripadvisor o usiamo qualsiasi altra piattaforma digitale. Questa enorme quantità di dati, macinata senza sosta da algoritmi ormai avanzatissimi, restituisce una fotografia precisa di chi siamo, dove e come viviamo, cosa ci serve e interessa, ma anche del nostro orientamento politico e religioso, dei nostri valori.
È il meccanismo che permette alle aziende di studiare campagne marketing sempre più personalizzate (ti propongo qualcosa che so che ti piace e probabilmente comprerai), tuttavia è lo stesso che finisce per alimentare una visione sempre più parziale e limitata della realtà, ingabbiandoci pian piano dentro vere e proprie filter bubble. Se sono gli algoritmi a scegliere ciò che dobbiamo vedere e leggere, finiamo infatti per essere esposti non solo a delle pubblicità mirate, ma anche a contenuti che confermano e rinforzano le nostre convinzioni, mentre non incontriamo quello che potrebbe metterle in discussione. Veniamo dunque chiusi in una bolla che rischia di produrre uno stato di isolamento cognitivo e intellettuale.
Sono – ahinoi – i nostri comportamenti digitali a far crescere e irrobustire la bolla. Nel paper “Recursive Patterns in online Echo Chambers”, un team di ricercatori del CNR coadiuvati dal prof. Walter Quattrociocchi dell’Università Ca’ Foscari di Venezia ha spiegato come le persone tendano a rimanere all’interno delle bolle in quanto comfort zone rassicuranti, condividendo con il proprio gruppo solo quello che aggrega intorno a sé un consenso sempre più granitico.
Queste echo chamber scatenano un processo di segregazione in tribù, che si riconoscono in una certa posizione e rifiutano qualsiasi narrazione divergente. Se la polarizzazione è già di per sé preoccupante, ancora di più lo diventa quando finisce per accreditare le fake news e la disinformazione, azzerando ogni possibilità di dibattito e confronto.
Non è ancora del tutto chiaro come arginare questa deriva e l’utilizzo degli algoritmi a fini manipolatori. Un recente intervento di Paolo Boccardelli della Luiss Business School ha sottolineato la necessità di prevedere in capo alle Authorithy meccanismi di controllo e regolamentazione più efficaci, forzando le piattaforme a rendere trasparenti i meccanismi di profilazione e contrastare la diffusione delle fake news. Ci sono indubbie responsabilità anche da parte dei media, ma forse gli anticorpi più potenti risiedono proprio negli utenti, che dovrebbero tornare a esercitare il loro senso critico, distinguere il vero dal falso, e rompere il circolo vizioso delle filter bubble.
Migranti, populismo e polarizzazione, il fact checking non funziona
È possibile per un giornale parlare di questioni socialmente scottanti in un modo che possa promuovere il confronto civile e il dialogo costruttivo? Quale stile di giornalismo intensifica la polarizzazione, e quale può mitigarla? In un'epoca in cui la fiducia nei media è scarsa e la politica populista porta avanti narrazioni parziali e provocatorie per avvelenare deliberatamente il dibattito pubblico, i giornalisti devono essere molto attenti all'impatto che il loro lavoro potrà avere.
Prendiamo un argomento controverso come i migranti. Benché il numero di arrivi in Italia sia drasticamente diminuito nel corso del 2018, la copertura sui media è aumentata, raccontando il fenomeno come una crisi permanente. Dall'insediamento del Governo Conte nel giugno 2018, il Ministro dell'Interno Matteo Salvini ha tenuto il tema in cima all'agenda politica con provvedimenti e dichiarazioni che hanno contribuito ad alimentare un senso comune fatto di pericolo, paura e rifiuto.
Poiché le notizie sui migranti tendono ad avere più attenzione di altre, nel 2018 l'Università Ca’ Foscari di Venezia ha lavorato insieme al Corriere della Sera e la London School of Economics ad un progetto di ricerca molto interessante, da cui è scaturita una recente pubblicazione dal titolo “Journalism in the age of populism and polarization”.
Sono stati analizzati tutti i post sul tema migranti pubblicati sulla pagina Facebook del Corriere dal 1° gennaio 2017 al 31 dicembre 2018, incluse le reazioni e i commenti, e tutti i contenuti postati sull'account Twitter ufficiale da marzo a dicembre 2018. Sono stati inoltre considerati 165 post Facebook preparati ad hoc dalla redazione per testare il feedback del pubblico rispetto a specifiche storie o tecniche narrative.
Lo studio ha indagato l'interesse e il coinvolgimento del pubblico sia in termini quantitativi, sia qualitativi, osservando il tono degli articoli e dei commenti, nonché misurando il livello di tossicità del linguaggio (ovvero l'utilizzo di parole volgari e aggressive, insulti o espressioni non rispettose) e le critiche rivolte al Corriere della Sera e i suoi giornalisti.
I risultati confermano che il fact checking non funziona. Quando sono state usate infografiche o un approccio data-driven, i ricercatori hanno osservato un immediato e netto rifiuto da parte degli oppositori, oltre a una critica feroce verso l'editore. Pubblicare opinioni forti inevitabilmente scatena un dibattito ad alta tossicità, ma anche i cosiddetti 'casi umani' – spesso preferiti per personalizzare la storia e aumentare l'empatia – hanno avuto esiti contrastanti. Questo genere di storie, soprattutto quelle che parlano di gruppi di migranti piuttosto che individui singoli, hanno infatti generato molti commenti negativi e una certa opposizione nei confronti degli autori.
Non stupisce che i contenuti dai toni imparziali e le inchieste più approfondite abbiano scatenato meno critiche, mentre la presenza di informazioni di contesto o la presentazione di soluzioni politiche abbia abbassato la tossicità del linguaggio nei commenti. Includere elementi visuali si è rivelata una delle modalità più efficaci per neutralizzare la reazione dell'audience, forse perché foto e video rendono il contenuto più veritiero, dunque difficile da confutare.
Il report integrale è disponibile qui.
Televisione e disinformazione
L’Italia è uno dei Paesi al mondo dove la percezione della realtà è tra le più falsate. Secondo il Misperceptions Index compilato da Ipsos MORI, la maggior parte di noi ha un’idea del tutto sbagliata del tasso di disoccupazione nazionale, l’incidenza della criminalità, la percentuale di persone vaccinate, i livelli di immigrazione.
Tralasciando le considerazioni sul nostro sistema scolastico ed educativo, al Festival del Giornalismo di Perugia si è parlato molto della relazione fra la disinformazione e i media, scoprendo che la cara vecchia televisione è spesso responsabile della diffusione delle errate percezioni, molto più di quanto potremmo immaginare.
Prendiamo ad esempio il tema dei migranti. Stando ai dati riferiti dal Ministero dell’Interno, in Italia abbiamo avuto nel 2017 circa 119.300 sbarchi, mentre nel 2018 sono stati poco più di 23.300. A fronte di questo notevole calo, uno studio dell’Istituto Cattaneo riferisce come gli italiani siano convinti che il numero di ingressi continui ad aumentare, e che gli immigrati extracomunitari rappresentino oggi il 25% della popolazione.
La realtà è che gli immigrati sono meno del 10% della popolazione e, a dispetto delle immediate associazioni con i flussi provenienti dal Nord Africa o le paure legate all’islamizzazione del Paese, quasi il 25% degli stranieri presenti sul territorio proviene dalla Romania, seguiti da Albania, Marocco e Cina.
Da dove nasce questa disinformazione? Se sono ormai noti i circoli viziosi che possono crearsi sul web e i social, non va sottovalutato il ruolo della televisione che, secondo il Censis, tuttora rappresenta per il 49% degli italiani l’unico canale o il mezzo prevalente di informazione.
Non si tratta di contenitori pomeridiani o programmi di intrattenimento. L’Osservatorio di Pavia ha analizzato per l’Associazione Carta di Roma il racconto del fenomeno migratorio restituito dai principali TG. Nei dieci mesi compresi tra gennaio e ottobre 2018, nonostante il crollo del numero di sbarchi, l’Osservatorio ha contato oltre 4.000 notizie sui migranti nei TG, 300 in più rispetto allo stesso periodo del 2017. Solo nel mese di giugno i servizi sono stati 875, il valore più alto dal 2015 a oggi.
Il tema rimane dunque centrale nei notiziari ed è trattato con toni da crisi permanente. Mentre calano i servizi sull’accoglienza dei migranti (dal 54% del 2015 al 17% del 2018), aumentano quelli sui flussi in entrata e la chiusura delle frontiere (dal 23% del 2018 al 47% del 2018). Il 32% delle notizie dei TG sull’immigrazione riguarda gli aspetti legati a criminalità e sicurezza.
Un racconto fortemente connotato, che non corregge la disinformazione ma finisce per alimentare il senso di pericolo, minaccia e paura.
Le fake news e le responsabilità di chi produce informazione
Mentre la Commissione europea annuncia un nuovo piano d’azione per combattere la disinformazione, accusando la Russia di spendere oltre un miliardi di euro l'anno per fomentare troll e notizie false con cui destabilizzare i governi occidentali, si riaccende il dibattito sugli squilibri che minano i meccanismi di produzione e consumo di informazione.
Secondo il rapporto “News vs. fake nel sistema dell’informazione”, appena pubblicato da AGCOM, ci sono argomenti come la cronaca, la politica e gli esteri (le cosiddette hard news) che, in un mese medio, assorbono oltre il 40% dell’informazione prodotta in Italia, generando contenuti in netto eccesso rispetto alla domanda effettiva. Quasi un quarto del volume informativo totale riguarda la cultura e lo spettacolo, mentre il 17% è riferito alle notizie sportive. All’economia e la finanza è dedicato l’11%, solo il 7% a scienza e tecnologia.
Proprio nelle aree più specialistiche l’offerta di contenuti di qualità è inferiore alla domanda, con la conseguenza di creare dei vuoti su tematiche – come il risparmio e gli investimenti, le nuove scoperte in campo medico, i vaccini e le terapie oncologiche, i cambiamenti climatici, ecc. – che pure hanno grande influenza sulla sfera ideologica delle persone, le loro convinzioni e decisioni.
AGCOM ha calcolato che l’incidenza media dei contenuti fake sul totale dell’informazione prodotta in Italia è passata dall’1% del 2017 a circa il 6% degli ultimi dodici mesi. In cima alla classifica dei primi otto mesi del 2018 troviamo le bufale legate a esponenti del governo, partiti e questioni politiche, ma quasi il 20% delle notizie false circolanti in Italia tocca la scienza, la medicina e l’hi-tech, mentre l’economia pesa poco più del 6%: l’Autorità ipotizza l’esistenza di una correlazione tra la carenza di informazione qualificata e il dilagare di contenuti inesatti o deliberatamente manipolati.
Non è quindi solo colpa di chi legge in modo superficiale o resta prigioniero del proprio confirmation bias. Una parte di responsabilità è da attribuire ai professionisti dell’informazione, pressati da tempi di produzione sempre più rapidi, risorse sempre più risicate, la crescente difficoltà di monetizzare i contenuti. Elementi che mettono in pericolo l’attendibilità e l’approfondimento delle informazioni, a volte nascondendosi dietro l’alibi di lettori e ascoltatori comunque distratti e poco competenti.
Il rischio è maggiore per le testate digitali, i blog e le pagine social, dove il problema della velocità delle notizie e il sovrautilizzo delle risorse è più accentuato. Facendo – ahinoi – di tutta l’erba un fascio, l’Autorità ha rilevato che nel 2017 le fake news erano circa il 2% del totale dell’informazione prodotta e distribuita online, ma negli ultimi dodici mesi il rapporto è salito al 10%, facendo crollare parallelamente la fiducia degli utenti. Le fonti online sono oggi considerate credibili soltanto dal 5% circa degli italiani, che continuano a ritenere la televisione (42%) e i quotidiani cartacei (17%) i canali più importanti per informarsi.
Consolazione, forse troppo magra, il fatto che le fake news abbiano un ciclo di vita più breve. Mentre una notizia reale può vivere fino a 30 giorni sui media tradizionali e online, per una falsa il periodo si riduce a soli 6 giorni. La presenza effettiva di un contenuto vero (ovvero il numero medio di giorni, anche non consecutivi, in cui si registra almeno un’occorrenza sui media) è di circa 20 giorni, che scendono a 3 per il falso.
Ma l’estrema viralità e il maggior coinvolgimento delle persone che inciampano nel fake, oltre al fatto che la Rete non perde memoria di quanto pubblicato, che sia attendibile o meno, impone a giornalisti e comunicatori una dose supplementare di serietà e autodisciplina – perché, come osserva la stessa AGCOM, “a livello nazionale e globale, fenomeni patologici di disinformazione tendono ad annidarsi lì dove il sistema dell’informazione fallisce”.
Meno senso critico, più fake news
Non è difficile trovare dati attendibili o fonti autorevoli per analizzare un qualsiasi fenomeno sociale, culturale o economico. Un tempo risorsa scarsa, oggi le informazioni sono molto più accessibili e, con un minimo di impegno, di migliore qualità rispetto al passato. Eppure, il fenomeno delle fake news cresce in modo esponenziale e i correttivi finora proposti dalle istituzioni e dalle piattaforme digitali sembrano produrre ben poco effetto.
Più che sulla diffusione e la viralità delle bufale, ha spiegato Walter Quattrociocchi al Forum dell’Economia Digitale, la scorsa settimana a Milano, dovremmo concentrarci su qualcosa di ancora più pericoloso, ovvero la rinuncia delle persone a esercitare il senso critico e la progressiva chiusura sulle informazioni che confermano la propria visione del mondo. È il cosiddetto confirmation bias, che ci spinge a rimanere all’interno di comfort zone rassicuranti, in cui non facciamo altro che rafforzare le nostre convinzioni e – al tempo stesso – radicalizzare i nostri pregiudizi.
Da uno studio condotto nel 2015 su 54 milioni di utenti Facebook è emerso che solo 1 utente su 12 interagisce con voci contraddittorie: il fatto di leggere e condividere solo ciò con cui siamo d’accordo, dai migranti ai vaccini, dalla politica all’economia, senza nemmeno verificarne la fonte o il contenuto, aumenta in modo rilevante la possibilità di incappare in una notizia falsa e diventarne (in)volontaria cassa di risonanza. E, infatti, il 91% dei temi che polarizzano le discussioni sui media è argomento di fake news.
Anche i dati perdono la loro imparzialità perché, contando sulla limitata volontà interpretativa di chi ascolta, vengono continuamente piegati per sostenere la tesi di chi parla. Con un duplice effetto: rinforzare e diffondere il consenso degli alleati (“Nella nuova politica, voto a parte, l’indicatore numero uno è il pollice”, ha scritto Denise Pardo sull’Espresso), e scatenare la reazione degli avversari. Anche le pratiche note come debunking, che hanno l’obiettivo di smontare le bufale attraverso le argomentazioni e l’intervento di esperti, hanno spesso l’effetto opposto, ovvero quello di gettare benzina sul fuoco dei complottisti e allontanare del tutto i moderati o gli indecisi.
Se non esiste un unico modo o una ricetta di sicuro successo per combattere le fake news, alcuni brand provano ad abbassare il livello di polarizzazione, nel tentativo di riportare il confronto su toni più neutri e dunque ragionevoli. Abbiamo imparato a considerare la reputazione come un asset strategico delle aziende, ma oggi – come ricordava Matteo Flora dallo stesso palco – non possiamo pensare di costruirla solo sui fatti o i numeri. Nell’epoca delle fake news, la reputazione è una percezione, che si alimenta dei discorsi e delle conversazione che i diversi stakeholder portano avanti, in Rete e oltre la Rete.
Fake news: combatterle, gestirle, giocarci?
Le fake news, il loro impatto sulla reputazione e le strategie migliori per difendersi sono un tema molto delicato per molte imprese. Le possibile strade da percorrere quando l'azienda è attaccata su questo fronte sono diverse: ne abbiamo parlato con Andrea Fontana, AD di Storyfactory, e Joseph Sassoon, partner di Alphabet Research, in occasione dell’incontro ‘Exponential Storytelling’ organizzato da OpenKnowledge per la Milano Digital Week.
Secondo i due ricercatori, occorre innanzitutto distinguere se siamo in presenza di una notizia ostile, cioè una manipolazione intenzionale della verità per attaccare una persona, un’azienda o un’organizzazione, oppure di una notizia falsa, che potrebbe essere tale per un errore o un’inesattezza, anche riportata in buona fede.
Nel secondo caso, il fact-checking è la risposta più sensata. Comunicare in modo trasparente la nostra versione della storia, confermata da fatti, numeri ed elementi oggettivi, è di solito una modalità efficace per smontare e correggere la notizia. Con un’avvertenza. Questa strategia non sempre basterà a fermare la diffusione virale della fake news che potrebbe, almeno in una prima fase, viaggiare più veloce della rettifica.
Se il problema è invece una notizia ostile, si possono valutare le vie legali, pur consapevoli della lunghezza e della complessità dell’eventuale iter giudiziario. Il fact-checking potrebbe essere una buona scelta anche in questa circostanza, ma occorre maggior cautela per non rischiare di gettare benzina sul fuoco. Di fronte a una notizia fortemente controversa che riguardi un brand, il pubblico tende infatti a polarizzarsi tra chi darà in ogni caso credito all’azienda e chi la attaccherà senza appello. Cercare di convincere tutti con la propria storia è dunque impossibile, potrebbe anzi attivare ulteriormente detrattori e complottisti. Meglio forse rivolgersi ai propri interlocutori-alleati, cominciando dai dipendenti o dai clienti più fedeli, per mettere i fatti in prospettiva e raggiungere grazie alla loro mediazione i cosiddetti fence-sitters, che non hanno un’opinione netta sulla questione specifica o sono comunque indecisi nel loro giudizio.
Oppure ... possiamo osare una strada del tutto diversa, che è quella di prenderci gioco dei falsi e combatterli con ironia, usando i social come cassa di risonanza. Ci ha provato Diesel, aprendo lo scorso febbraio a New York un negozio molto particolare. In Canal Street, una delle strade più frequentate da chi cerca merce contraffatta a basso costo, si presenta Deisel, con un’insegna molto simile all’originale e soprattutto con i prodotti originali, di cui è stata però modificata l’etichetta.
L’effetto sulle persone è a tratti esilante (qui il video che raccolta l’esperimento) e chi ha comprato i jeans Deisel, convinto o meno che fossero Diesel, si trova oggi tra le mani i pezzi di una limited edition il cui valore è destinato a salire nel tempo.
Altro caso interessante è Miquela Sousa alias Lil Miquela, la modella e cantante che ha oltre 780mila follower su Instagram, posta foto che la ritraggono con abiti dei marchi più noti, raccoglie decine di migliaia di like e viene chiamata da tanti brand che vorrebbero usarla come influencer e testimonial. Attenzione: Miquela si comporta come una fashion blogger ma non esiste, è un personaggio creato al computer da un artista, al momento sconosciuto. Voleva forse dimostrarci che è possibile vivere – e guadagnare – facendo di se stessi un fake?