Tra marzo e dicembre 2020, il Covid-19 ha occupato quasi l’85% dello spazio disponibile sui media italiani. Se si considerano le sole notizie circolate online, il peso della disinformazione non è mai sceso al di sotto del 4,3%, con picchi vicini al 7% nel mese di febbraio 2020 e del 6% in maggio. Rispetto invece ai contenuti social, il tasso di disinformazione ha spesso superato il 10%, arrivando al 13% nell’ultima settimana dello scorso maggio.
Nonostante i molti sforzi compiuti dalle istituzioni, dalla comunità scientifica, dai media e dalle piattaforme, non si è dunque riusciti ad arginare l’infodemia che ha accompagnato la diffusione del coronavirus, con gli individui – e spesso anche i decisori pubblici – sempre più chiusi all’interno di vere e proprie bolle informative.
“Sappiamo che gli algoritmi hanno un ruolo determinante nella creazione di echo chamber in cui le opinioni sono fortemente polarizzate. Ma il problema non è solo comprendere i meccanismi per cui le bolle si formano e come romperne il circolo vizioso, dobbiamo oggi interrogarci sull’effetto che i dati stanno avendo sulla nostra società, la politica e l’economia”, ha sottolineato il professor Walter Quattrociocchi in occasione della presentazione del nuovo Center of Data Science and Complexity for Society dell’Università Sapienza di Roma.
L’infodemia e la sovrabbondanza di dati rende sempre più difficile distinguere il vero dal falso, fin quasi a mettere in discussione la definizione stessa di verità. “La libertà di espressione deve continuare a essere garantita, ovviamente nei limiti previsti dalla legge. Ma su quale base decidiamo che un’informazione è vera? Possiamo lasciare che siano le piattaforme o chi si propone come debunker a stabilirlo?”, ha chiesto Antonello Giacomelli, commissario di AGCOM, commentando la rimozione di 7 milioni di post fake da parte di Facebook, o la sospensione permanente dell’account di Donald Trump da parte di Twitter.
La maggior parte delle fonti prova a contrastare la disinformazione mettendo ancora più dati al centro del dibattito, nella convinzione che numeri, fatti ed evidenze oggettive siano sufficienti per smascherare fake news e complotti.
Ahinoi, non è proprio così. Un recentissimo studio del MIT ha dimostrato che gli stessi dati possono essere usati per sostenere tesi diametralmente opposte: è accaduto con le statistiche Covid-19, i ricercatori hanno trovato i medesimi numeri citati in modo strumentale tanto dagli allarmisti quanto dai negazionisti.
Il corretto utilizzo dei dati è dunque una questione per nulla banale. “Bisogna innanzitutto partire da dati accurati e di buona qualità, cosa che non dobbiamo dare per scontata”, ha aggiunto Marco Cattaneo, direttore de Le Scienze. “Servono poi competenze specifiche per saperli correlare e interpretare, insieme a una certa dose di senso critico e, ancora più importante, un grande senso di responsabilità”.
Mettere tanti, troppi dati a disposizione di tutti non sembra dunque l’antidoto giusto alla disinformazione, piuttosto un boomerang dai possibili effetti pericolosi. Lo sa bene una bella fetta di quell’84% di giornalisti italiani che, a prescindere dal settore di provenienza, nell’ultimo anno si sono trovati a scrivere di virus e pandemia.
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