Oltre 3.600 articoli pubblicati nel 2024 su 25 testate nazionali. Da qui è partito l’Osservatorio STEP, coordinato dalla professoressa Flaminia Saccà dell’Università Sapienza di Roma, per indagare il racconto giornalistico della violenza contro le donne. Rispetto alla precedente edizione, “ci sono stati dei miglioramenti, leggeri ma importanti”, spiega Saccà ad Alley Oop – Il Sole 24 Ore, segno di una maggiore consapevolezza del ruolo e della responsabilità che il linguaggio esercita nel formare la percezione del fenomeno e dei singoli casi.

Secondo l’Osservatorio, oggi le notizie non sono più confinate alle pagine di cronaca (con incursioni nelle prime pagine per i fatti più efferati), ma hanno conquistato un diverso spazio e una nuova collocazione, trainando spesso approfondimenti e riflessioni a cura di esperti. Altro cambiamento positivo è il crescente utilizzo dei nomi dei reati – femminicidio, stupro di gruppo, stalking, ecc. – per guidare chi legge nella corretta ricostruzione dei fatti. Un buon numero di articoli relativi ai femminicidi continua tuttavia a parlare di “tragedia”, azzerando o attenuando la responsabilità del reo, ma sta finalmente diventando marginale il “raptus”, che peraltro non ha alcun fondamento scientifico: solo il 3% degli articoli lo riporta come motivazione della violenza.

Resta forte l’agenda setting, ovvero la costruzione di un racconto che privilegia alcune forme di violenza – quelle più eclatanti, dunque più spendibili – e restituisce una fotografia non del tutto aderente alla realtà. Confrontando i dati raccolti dalle questure nel 2024 con gli articoli pubblicati, l’Osservatorio rileva infatti che le violenze domestiche sono il reato più denunciato (50% dei casi), ma hanno solo il 17% della copertura mediatica. Quasi il 36% delle denunce riguarda atti persecutori e stalking, che troviamo però soltanto nell’8% degli articoli. C’è discrepanza anche per le violenze sessuali (14% delle denunce, 20% degli articoli) e soprattutto per i femminicidi, che sono il reato più presente sulla stampa (25% degli articoli analizzati), ma rappresentano meno dello 0,3% dei casi reali.

Rispetto alla qualità del racconto, non si può che notare la persistenza di frame narrativi ancora orientati alla colpevolizzazione delle vittime, tanto nelle parole quanto nelle immagini. Resiste il “se l’è cercata” e, quando il comportamento e lo stile di vita della donna non sono prove sufficienti, c’è il torto di non essersi sottratta alla relazione tossica o non aver riconosciuto la situazione di pericolo. È successo ad esempio con Aurora Tila, che nemmeno la madre – colpevole anche lei – “ha saputo proteggere”, ma anche con Ilaria Sula e Sara Campanella, che “non avevano denunciato”.

Nella rappresentazione dell’autore della violenza, precisa Saccà che “cominciamo finalmente a vedere nei titoli una maggiore presenza dell’assassino: questo è importante per far comprendere che la violenza è agita da un uomo e non è un accidenti che capita alle donne”. Tuttavia, se per qualunque altro tipo di reato la comprensione è tutta per la vittima, nel racconto della violenza di genere l’Osservatorio documenta una marcata tendenza all’himpathy, ovvero a manifestare empatia nei confronti del colpevole o presunto tale. È il frame, descritto dalla filosofa australiana Kate Manne, che mette l’offender in una prospettiva autoassolutoria e vittimistica e ritroviamo quando, ad esempio, i media sottolineano come lui pianga o sia dispiaciuto, oppure che il fatto sia inspiegabile visto che era un “bravo ragazzo”, un “padre modello”, un “onesto lavoratore”.

L’himpathy è particolarmente evidente nei femminicidi di donne con disabilità, malate o anziane, rappresentato addirittura come gesto altruistico. In 149 casi analizzati, l’Osservatorio evidenzia una serie di aggettivi riferiti al femminicida – mite, gentile, tranquillo, sconvolto, esasperato, ecc. – che qualificano la violenza come conseguenza del faticoso esercizio di cura della moglie o compagna non autosufficiente. Il “raptus” torna in questi casi tra i moventi più citati, indicato nel 34% degli articoli.

È indubbio che il femminicidio di Giulia Cecchettin abbia cambiato le carte in tavola. I dati parlano di una maggiore propensione delle donne a de­nunciare o affidarsi ai centri antiviolenza, e l’Osservatorio STEP documenta anche il cambiamento della rappresentazione giornalistica. Certo la svolta non è ancora compiuta e, mentre i media lavorano sulle raccomandazioni del Manifesto di Venezia, molto può essere fatto anche nelle scuole, aiutando ragazze e ragazzi a riconoscere e contrastare le narrazioni tossiche.

 

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