Giornali e media alla prova dell’AI

Tra i pionieri dell’uso dell’AI in ambito giornalistico spiccano il Washington Post con il robot-giornalista Heliograf, e The Guardian, che già nel 2020 pubblicava un editoriale firmato da GPT-3 di OpenAI. Da allora, sempre più testate in tutto il mondo hanno integrato tecnologie di intelligenza artificiale nei propri workflow editoriali, anche se non è semplice quantificarne la diffusione esatta.

Molti quotidiani e agenzie – tra cui Associated Press, Reuters, Bloomberg e Forbes – usano l’AI per automatizzare la scrittura di cronache sportive, report finanziari e aggiornamenti su eventi complessi come le elezioni. In altri casi, come Der Spiegel, l’AI supporta il fact-checking e aiuta i redattori a verificare la veridicità delle fonti prima della pubblicazione.

In Italia, l’impatto dell’AI è tra le novità del nuovo Codice deontologico dei giornalisti, in vigore dal 1° giugno 2025, che impone la massima trasparenza: l’AI non può sostituire il lavoro umano e va sempre dichiarata e supervisionata. Un esempio virtuoso è quello de Il Sole 24 Ore, che utilizza l’AI per il data journalism e la creazione di inchieste e dossier basati sull’analisi di grandi basi di dati (Lab24, Info Data). Interessante, ma non esente da critiche, anche la sperimentazione condotta da Il Foglio, che ha lanciato “Il Foglio AI”, un’edizione interamente generata con strumenti di intelligenza artificiale.

Cosa ne pensano i giornalisti? Secondo una recente indagine della Thomson Reuters Foundation, il 54% ritiene che l’AI abbia già trasformato in modo significativo il lavoro delle redazioni. Il 42% guarda con ottimismo al suo impiego futuro, pur segnalando criticità etiche ancora da risolvere.

I lettori, invece, si mostrano più scettici. Un sondaggio del Pew Research Center indica che il 50% degli americani teme che l’AI peggiorerà la qualità delle notizie. Il 41% la giudica meno efficace nella scrittura e il 66% esprime forti preoccupazioni per il rischio di disinformazione.

Ma l’AI non riguarda solo i giornalisti e il lavoro editoriale. Con l’obiettivo di personalizzare sempre di più e meglio l’esperienza dei lettori, gli algoritmi di raccomandazione – come quelli adottati da New York Times e BBC – analizzano i comportamenti di navigazione per suggerire articoli pertinenti, aumentare l’engagement e ottimizzare il tempo speso sul sito. In parallelo, strumenti di AI generano automaticamente metadati SEO e contenuti social, migliorando la diffusione online, come nel caso de Il Sole 24 Ore.

L’AI si sta rivelando utile anche per rendere i contenuti più accessibili e inclusivi. Al Festival del Giornalismo di Perugia, Matthew Garrahan ha raccontato cosa sta facendo il Financial Times: dall’agente Ask FT per fare ricerche avanzate negli archivi del giornale alle traduzioni in più lingue per i lettori stranieri, dalla generazione automatica di titoli, sottotitoli e abstract ai contenuti per le persone ipovedenti, la testata sta provando l’AI anche per il monitoraggio e la moderazione dei commenti pubblicati sotto le storie. È ancora presto per misurare i risultati in termini di soddisfazione e fidelizzazione del pubblico, ha sottolineato Garrahan, ma i primi riscontri sono incoraggianti.

Una delle domande aperte riguarda l’impatto dell’AI sui modelli di business degli editori: se la risposta che cerco posso chiederla a ChatGPT, perché dovrei pagare un giornale? Per Garrahan, la risposta non è nella tecnologia, ma nel valore del contenuto: Nessun algoritmo, almeno per ora, può sostituire la qualità dell’informazione prodotta da giornalisti competenti e fonti affidabili”.

 

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Violenza di genere, quando a colpire è lei

Oltre il 90% dei crimini violenti è compiuto da uomini e le donne rappresentano poco più del 4% della popolazione delle carceri italiane, rileva l’associazione Antigone nel suo rapporto sulle donne detenute, pubblicato per la prima volta nel 2023.

Il basso tasso di criminalità femminile è uno dei motivi che spiega perché, fino ad anni recenti, il fenomeno sia stato poco studiato. Alcune teorie, come quella di Freda Adler negli anni Settanta del Novecento, hanno provato a legarla all’emancipazione femminile, ipotizzando che la maggior partecipazione delle donne alla vita sociale e lavorativa aumenti la possibilità di incorrere in comportamenti devianti e, quindi, faccia aumentare la delinquenza femminile. Secondo la criminologa americana, raggiungendo la parità tra i generi avremmo assistito all’equiparazione dei crimini commessi da uomini e donne.

Benché ampiamente smentita dai fatti (anche nelle società più avanzate sui temi della parità, le donne delinquono meno degli uomini, compiono reati meno gravi e hanno meno probabilità di recidiva), questa teoria ha influenzato il modo in cui i media parlano dei reati al femminile. Secondo la scrittrice Giulia Blasi e la videoreporter Rai Amalia De Simone, che al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia hanno condotto un panel dedicato proprio a questo tema, nel racconto mediatico affiorano molto spesso pregiudizi di genere e stereotipi di stampo patriarcale.

L’analisi dei frame narrativi più ricorrenti mostra che la vittima maschile non è quasi mai colpevolizzata, nemmeno quando la violenza si sviluppa in un contesto di accertati abusi e maltrattamenti ai danni della donna. Questo è sensibilmente diverso da ciò che accade quando è lei a subire: per l’uomo carnefice si tendono a dare giustificazioni che diventano moventi (“motivazioni comprensibili” avrebbero mosso Salvatore Montefusco,  condannato a 30 anni di reclusione per un duplice femminicidio), mentre alla donna vittima è spesso imputata una certa dose di corresponsabilità (“se l’è cercata”) con un'attenzione morbosa al suo stile di vita.

Della violenza femminile si indaga poco la causa, molto meno di quanto i media fanno a parti invertite, e quasi mai l’atto è descritto come un raptus (questo frame narrativo è peraltro in calo anche nel racconto della violenza maschile). Se è lei a colpire, la sottolineatura è spesso sulla devianza e l’orientamento sessuale, in particolare nei casi di violenza agita da persone LGBTQ+. Nel descrivere i colpevoli, c’è tanta empatia quando è uomo (himpathy), pochissima quando è donna.

Altro frame comune per descrivere l’autrice della violenza è l’uso di epiteti legati al mondo animale: celebri, ad esempio, i casi della Belva di San Gregorio e delle numerose “mantidi” protagoniste della cronaca nera (la Mantide di Casandrino, la Mantide di Parabiago, la Mantide della Brianza, ecc.). Un meccanismo diverso, ma con effetto analogo, è quello che porta i media a infantilizzare le donne eliminandone il cognome. Leggiamo così “Ergastolo Turetta, le motivazioni” nei titoli sulla sentenza a carico del femminicida Filippo Turetta, ma “Aggressioni acido: 16 anni per Martina, 9 anni e 4 mesi a Magnani” viene usato per Martina Levato e il suo complice.

Sembra tuttora mancare una struttura per interpretare e raccontare la criminalità femminile, ha detto Giulia Blasi chiudendo il panel. Mentre la violenza degli uomini tende a essere normalizzata, i media faticano a trovare le parole per atti e comportamenti commessi da donne che rompono lo schema dell’angelo del focolare, dell’essere fragile ed empatico. La sfida della narrazione della violenza di genere è aperta anche su questo fronte.

 

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Violenza di genere, ancora donne colpevoli e troppa himpathy

Oltre 3.600 articoli pubblicati nel 2024 su 25 testate nazionali. Da qui è partito l’Osservatorio STEP, coordinato dalla professoressa Flaminia Saccà dell’Università Sapienza di Roma, per indagare il racconto giornalistico della violenza contro le donne. Rispetto alla precedente edizione, “ci sono stati dei miglioramenti, leggeri ma importanti”, spiega Saccà ad Alley Oop – Il Sole 24 Ore, segno di una maggiore consapevolezza del ruolo e della responsabilità che il linguaggio esercita nel formare la percezione del fenomeno e dei singoli casi.

Secondo l’Osservatorio, oggi le notizie non sono più confinate alle pagine di cronaca (con incursioni nelle prime pagine per i fatti più efferati), ma hanno conquistato un diverso spazio e una nuova collocazione, trainando spesso approfondimenti e riflessioni a cura di esperti. Altro cambiamento positivo è il crescente utilizzo dei nomi dei reati – femminicidio, stupro di gruppo, stalking, ecc. – per guidare chi legge nella corretta ricostruzione dei fatti. Un buon numero di articoli relativi ai femminicidi continua tuttavia a parlare di “tragedia”, azzerando o attenuando la responsabilità del reo, ma sta finalmente diventando marginale il “raptus”, che peraltro non ha alcun fondamento scientifico: solo il 3% degli articoli lo riporta come motivazione della violenza.

Resta forte l’agenda setting, ovvero la costruzione di un racconto che privilegia alcune forme di violenza – quelle più eclatanti, dunque più spendibili – e restituisce una fotografia non del tutto aderente alla realtà. Confrontando i dati raccolti dalle questure nel 2024 con gli articoli pubblicati, l’Osservatorio rileva infatti che le violenze domestiche sono il reato più denunciato (50% dei casi), ma hanno solo il 17% della copertura mediatica. Quasi il 36% delle denunce riguarda atti persecutori e stalking, che troviamo però soltanto nell’8% degli articoli. C’è discrepanza anche per le violenze sessuali (14% delle denunce, 20% degli articoli) e soprattutto per i femminicidi, che sono il reato più presente sulla stampa (25% degli articoli analizzati), ma rappresentano meno dello 0,3% dei casi reali.

Rispetto alla qualità del racconto, non si può che notare la persistenza di frame narrativi ancora orientati alla colpevolizzazione delle vittime, tanto nelle parole quanto nelle immagini. Resiste il “se l’è cercata” e, quando il comportamento e lo stile di vita della donna non sono prove sufficienti, c’è il torto di non essersi sottratta alla relazione tossica o non aver riconosciuto la situazione di pericolo. È successo ad esempio con Aurora Tila, che nemmeno la madre – colpevole anche lei – “ha saputo proteggere”, ma anche con Ilaria Sula e Sara Campanella, che “non avevano denunciato”.

Nella rappresentazione dell’autore della violenza, precisa Saccà che “cominciamo finalmente a vedere nei titoli una maggiore presenza dell’assassino: questo è importante per far comprendere che la violenza è agita da un uomo e non è un accidenti che capita alle donne”. Tuttavia, se per qualunque altro tipo di reato la comprensione è tutta per la vittima, nel racconto della violenza di genere l’Osservatorio documenta una marcata tendenza all’himpathy, ovvero a manifestare empatia nei confronti del colpevole o presunto tale. È il frame, descritto dalla filosofa australiana Kate Manne, che mette l’offender in una prospettiva autoassolutoria e vittimistica e ritroviamo quando, ad esempio, i media sottolineano come lui pianga o sia dispiaciuto, oppure che il fatto sia inspiegabile visto che era un “bravo ragazzo”, un “padre modello”, un “onesto lavoratore”.

L’himpathy è particolarmente evidente nei femminicidi di donne con disabilità, malate o anziane, rappresentato addirittura come gesto altruistico. In 149 casi analizzati, l’Osservatorio evidenzia una serie di aggettivi riferiti al femminicida – mite, gentile, tranquillo, sconvolto, esasperato, ecc. – che qualificano la violenza come conseguenza del faticoso esercizio di cura della moglie o compagna non autosufficiente. Il “raptus” torna in questi casi tra i moventi più citati, indicato nel 34% degli articoli.

È indubbio che il femminicidio di Giulia Cecchettin abbia cambiato le carte in tavola. I dati parlano di una maggiore propensione delle donne a de­nunciare o affidarsi ai centri antiviolenza, e l’Osservatorio STEP documenta anche il cambiamento della rappresentazione giornalistica. Certo la svolta non è ancora compiuta e, mentre i media lavorano sulle raccomandazioni del Manifesto di Venezia, molto può essere fatto anche nelle scuole, aiutando ragazze e ragazzi a riconoscere e contrastare le narrazioni tossiche.

 

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fake news, media

In fuga dalle notizie

I dati del Digital News Report del Reuters Institute indicano che sono in molti a rifiutare categoricamente tutte le fonti di informazione, inclusi i giornali, le trasmissioni televisive o i feed dei social media. Altri agiscono in modo selettivo, con il 53% che sceglie di accedere alle notizie meno frequentemente e il 32% che evita determinati argomenti.

Le ragioni sono varie. Un fattore comunemente citato è il tempo: molti pensano che informarsi richieda troppo tempo e si limitano a una veloce sbirciata ai titoli. Ma questa non è probabilmente la motivazione principale.

Nel libro ‘Avoiding the News‘, gli autori Benjamin Toff, Ruth Palmer e Rasmus K. Nielsen spiegano che la giustificazione più ricorrente è “non sono io, sono le notizie”. I media sono percepiti come distanti dalla propria microrealtà e difficili da capire, in più fanno sentire le persone impotenti di fronte a problemi per cui non possono fare nulla. In un’epoca in cui l’informazione è pervasiva e abbondante, gli individui sono dunque sopraffatti dalla quantità di notizie disponibili e insoddisfatti dei contenuti.

Da considerare anche il possibile impatto negativo sul benessere personale. I media parlano di tragedie, conflitti e crisi, ospitano storie politiche e sociali fortemente polarizzate. Le persone preferiscono la disconnessione per proteggersi da informazioni ritenute angoscianti e deprimenti, ma anche per evitare di trovarsi esposte a fatti e opinioni che mettono in discussione le proprie convinzioni. Questo significa perdere contatto con una parte dell’attualità e fuggire dal confronto con chi la pensa diversamente, ma l’evitamento selettivo è una buona strategia per chi vuole restare nella propria comfort zone.

Anche la diffusione del sensazionalismo e della disinformazione ha generato una certa diffidenza verso i media. Alcuni scelgono di starne lontani piuttosto che rischiare di essere ingannati o manipolati da informazioni di cui non sanno verificare la correttezza.

Il fenomeno del rifiuto delle notizie è stato discusso lo scorso aprile al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, dove si è provato a rispondere a questa domanda: possiamo far cambiare idea a chi fugge dall’informazione? Esiste un modo per migliorare la produzione e la diffusione delle notizie?

Può sembrare ovvio, ma la prima strategia è proporre storie semplici, concise e utili. Le notizie dovrebbero essere comprensibili anche quando affrontano questioni complesse e non richiedere troppo tempo né sforzo per essere digerite. Questo è ben dimostrato da esperienze di successo come gli explainer della BBC, la newsletter britannica ‘The Knowledge’ o il podcast ‘Morning’ de Il Post.

Visto le persone tendono ad apprezzare il giornalismo di servizio, funziona l’integrazione di contenuti costruttivi, pratici e orientati alla soluzione. Le notizie negative attirano ancora l’attenzione (almeno se parliamo di un pubblico maturo) ma, quando si tratta di argomenti come il cambiamento climatico, sappiamo che le narrazioni catastrofiche spingono le persone verso il disimpegno. Portare soluzioni e un po’ di speranza può quindi essere una buona idea.

Ha senz’altro senso sperimentare formati digitali più coinvolgenti, con contenuti video o audio. Ma ha senso anche investire in redazioni più inclusive e aperte alla diversità: non è solo una questione di equità, ma un modo efficace per raggiungere comunità che trovano i media mainstream irrilevanti e lontani dal loro sentire. Tra gli esempi presentati a Perugia, interessante quello del servizio pubblico canadese CBC, che ha cominciato a rivolgersi alle comunità indigene con una specifica strategia di contenuti.

Il rifiuto diffuso delle notizie è un problema serio. Se concordiamo con il motto del The Washington Post — “La democrazia muore nell’oscurità” — contribuiamo a diffondere l’educazione ai media e sosteniamo gli editori e i giornalisti che lavorano per tenere le persone informate e coinvolte.


utente attivo

Il web e l’illusione dell’utente attivo

George Gerbner non trovò evidenze immediate ma formulò la ‘teoria della coltivazione’, secondo cui la TV è in grado nel lungo periodo di modellare la nostra percezione della realtà, facendoci desiderare un mondo più simile a quello che vediamo sullo schermo.

La teoria parte da un presupposto molto preciso: essendo un media di massa e monodirezionale, la TV parla a un pubblico passivo, che non può avere alcuna forma di interazione con l’emittente del messaggio. L’arrivo del web 2.0 e dei social ha cambiato il paradigma e aperto finalmente la strada a un utente attivo, che può navigare, creare e distribuire i propri contenuti, commentare e partecipare alla conversazione.

Ma siamo davvero di fronte a un utente attivo? Non esattamente.

In linea teorica, l’utente avrebbe gli strumenti per accedere a una quantità di informazioni ben più ampia di quella disponibile ai tempi di Gerbner, potrebbe confrontare fonti diverse, usare il senso critico per costruire una propria visione del mondo. In pratica, – e questo accade per due ragioni principali.

Intanto perché i contenuti disponibili online sono troppi e le persone, complice anche la bulimia di informazione legata alla pandemia, hanno perso interesse per le notizie. L’acquisto e la lettura dei giornali di carta sono in continuo calo, ma anche i siti di news hanno più di una difficoltà. Secondo l’ultimo rapporto del Reuters Institute for the Study of Journalism, solo 1 persona su 4 accede direttamente ai portali o le app dei giornali, la larga maggioranza si imbatte nelle notizie riportate dai social o mentre cerca qualcosa online.

“Prima erano le persone che andavano a cercare le notizie, ora sono le notizie che vanno a cercare le persone”, ha ben sintetizzato Giulia Balducci, responsabile dei canali social de Il Post in una recente Lezione sul giornalismo. Lo stesso Reuters Institute conferma che il 56% degli utenti Facebook vede scorrere articoli e video notizie mentre si trova sulla piattaforma per altre ragioni.

L’utente è quindi più passivo perché le notizie arrivano mentre sta facendo altro, dunque non è particolarmente interessato e non presta troppa attenzione (a meno che non sia qualcosa di sensazionale con un titolo clickbait, ma questa è un’altra storia).

Non solo. Se il consumo di informazione tende a essere casuale, dobbiamo ricordare che le notizie dai social non capitano a caso. Entrano infatti in gioco gli algoritmi, che scelgono quello che vediamo sul web e i social e ci propongono contenuti sempre più vicini alle nostre convinzioni, abitudini, desideri e persino emozioni. L’utente è passivo anche perché tende a chiudersi in una filter bubble, in cui le opinioni sono polarizzate e pericolosamente aderenti a quello con cui già siamo d’accordo.

La trappola della disinformazione è in agguato. E l’idea di un utente attivo e consapevole si è – ahinoi – rivelata un’illusione. Si può invertire la rotta?

“Su base collettiva ci può essere una presa di coscienza propedeutica a innescare una maggiore attenzione e azioni più concrete in difesa della buona informazione, ma se il nostro obiettivo è migliorare il nostro habitat informativo e contrastare quotidianamente la disinformazione questo non può che essere un impegno individuale”, ha scritto Matteo Grandi presentando il suo saggio La verità non ci piace abbastanza. “Se vogliamo essere davvero informati dobbiamo diventare o tornare a essere fruitori attivi: cercando, dubitando, verificando”.


Prima dei cartoni animati: le pantomime luminose

Le pantomime luminose sono un particolare tipo di proiezione animata pensata per il teatro ottico, il sistema costruito dallo stesso Reynaud che permette di far scorrere una sequenza di immagini, impresse su lastre di vetro, rendendo l’idea del movimento. La prima proiezione pubblica – chiamata proprio pantomima luminosa – fu il 28 ottobre 1892 al museo Grévin di Parigi ed ebbe un enorme successo.

Una delle pantomime più famose (Reynaud ne realizzò in tutto cinque) fu Pauvre Pierrot, dove vediamo Pierrot alle prese con un goffo tentativo di sedurre Colombina con una serenata. Quello che possiamo definire il primo cortometraggio animato della storia del cinema dura circa 15 minuti e consiste in una sequenza di 500 immagini dipinte a mano su altrettante lastre di vetro. Lo spettacolo di Reynaud, in cui lui stesso lavorava come proiezionista, era accompagnato dalla colonna sonora composta ed eseguita da Gaston Paulin.

Il teatro ottico di Reynaud è andato perduto (in un momento di disperazione, forse causato proprio dal suo successo, l’autore lo gettò nella Senna), ma una riproduzione è visibile al Museo Nazionale del Cinema di Torino.


violenza di genere

Violenza di genere, le parole contano

Sulla rappresentazione della violenza di genere è stato scritto molto. Una delle ricerche più interessanti degli ultimi anni è quella del progetto STEP, realizzato dall’Università degli Studi della Tuscia con il coordinamento di Flaminia Saccà e in partnership con l’Associazione Differenza Donna. STEP ha indagato gli stereotipi e i pregiudizi che colpiscono le donne vittime di violenza attraverso un’accurata analisi sociolinguistica su oltre 16.700 articoli pubblicati tra il 2017 e il 2019 da 15 quotidiani nazionali e locali e circa 280 sentenze di primo e secondo grado.

Lo studio ha mostrato innanzitutto uno scollamento tra la reale frequenza dei reati contro le donne e la loro visibilità sui media. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, nel 2019 i reati più commessi sono stati i maltrattamenti familiari (51% dei casi), seguiti da stalking (31%), violenze sessuali (17%), femminicidi (meno dell’1%), tratta e riduzione in schiavitù (meno dell’1%). Sulla stampa dominano invece lo stalking e i femminicidi, cui sono dedicati rispettivamente il 53% e il 44% degli articoli analizzati da STEP. Solo il 14% delle notizie riguarda casi di violenza domestica, poco meno del 10% i casi di stupro.

“I giornali scelgono i fatti che diventano notizie (…) Gli articoli non devono essere scambiati per fotografie e conteggio dei casi reali, tuttavia questa rappresentazione sociale della realtà è già significativa”, scrive la professoressa Saccà. “Il maltrattamento in famiglia non fa notizia, quasi appunto che sia da considerarsi la norma. Ne emerge una normalizzazione di questa tipologia di violenza che rischia di lasciare le donne più sole ed indifese”.

L’indagine restituisce inoltre una rappresentazione distorta dei fatti, in cui abbondano pregiudizi e stereotipi che colpevolizzano le donne e tendono a giustificare gli aggressori. Tanto in ambito giornalistico quanto giudiziario, STEP ha evidenziato numerose ricorrenze in cui la donna viene descritta come responsabile della violenza subita (il cosiddetto ‘victim blaming’, quando si sottolinea ad esempio che la donna era vestita in modo inappropriato, aveva assunto alcolici, 0 non si sarebbe difesa con sufficiente forza) oppure l’accento viene spostato completamente sull’aggressore, privilegiando il suo punto di vista (‘himpathy’) e presentando l’atto violento come reazione, eccessiva ma comprensibile, ad un certo comportamento della vittima.

Spesso la violenza viene neutralizzata usando due tecniche in apparenza opposte: normalizzandola, ovvero derubricandola quale effetto di conflitti famigliari o relazioni fallite, oppure presentandola come fatto eccezionale, frutto di un raptus incontrollabile o agita da un soggetto chiaramente deviante. L’effetto in entrambi i casi è quello di far scomparire l’uomo e le sue responsabilità.

“La cultura patriarcale nella quale il paese è ancora immerso di fatto continua a tabuizzare l’atto di accusa di una donna nei confronti di un uomo e a “comprendere” la violenza di lui (…) in un processo di normalizzazione che finisce con il legittimarla e pertanto, col riprodurla”, commenta Saccà.

Esistono regole precise per una corretta rappresentazione della violenza di genere, contenute ad esempio nella Convenzione di Istanbul del 2011 e nel Manifesto di Venezia del 2017, e richiamate dal Testo unico dei doveri del giornalista, in vigore dal 2021. L’articolo 5 bis specifica come, nel riferire femminicidi, violenze e molestie, il giornalista debba sempre evitare stereotipi di genere, espressioni e immagini lesive della dignità della persona, usare un linguaggio rispettoso, corretto e consapevole, attenersi all’essenzialità della notizia senza spettacolarizzare la violenza né sminuirne la gravità, rispettare anche i familiari delle persone coinvolte.

Benché la sensibilità dei media sia cresciuta nel tempo, non mancano esempi anche molto recenti in cui questi principi sono stati disattesi. Come abbattere allora gli stereotipi e i pregiudizi che, più o meno consapevolmente, inquinano la rappresentazione della violenza di genere?

Serve certo un cambiamento culturale profondo. Serve un’azione educativa più incisiva nelle scuole. Serve tanta formazione: lo stesso progetto STEP ha coinvolto circa 2 mila professionisti tra magistrati, avvocati, rappresentanti delle forze dell’ordine e giornalisti con seminari e corsi sviluppati ad hoc.

La tecnologia può essere d’aiuto. Un team di ricercatori delle università di Pavia e Groningen ha messo a punto un algoritmo di Intelligenza Artificiale in grado di analizzare testi relativi a femminicidi e violenze di genere per prevedere la possibile interpretazione da parte dei lettori. Il sistema può ad esempio capire se la colpevolezza dell’aggressore risulta chiara, se ci sono aree di ambiguità, se la descrizione della vittima è filtrata da stereotipi. Il prossimo passo è lo sviluppo di una versione avanzata che, data una frase e la sua percezione, suggerisca all’autore delle alternative libere da preconcetti e meno deresponsabilizzanti nei confronti del colpevole.


great resignation

Informazione digitale, fiducia nei media e produttori di notizie

Può sembrare strano, ma la complessità dei cambiamenti politici, economici e sociali non ha fatto scattare nelle persone un maggior bisogno di informazione, piuttosto le ha fatte scappare dai media e dalle notizie.

È questo uno dei dati più interessanti nel Digital News Report 2023 del Reuters Institute, che ha indagato la dieta mediatica di circa 93mila individui in 46 paesi. Meno della metà (48%) si dichiara molto o estremamente interessata alle notizie, in netta discesa rispetto al 63% del 2017. La proporzione di chi evita le notizie resta vicina al 36% in quasi tutte le geografie, con la maggior parte delle persone che si informa solo su pochi temi specifici e salta i grandi fatti di attualità, ritenuti ripetitivi o emotivamente stancanti.

Il Report conferma alcuni dei trend di consumo dei media già osservati negli ultimi tempi: il pubblico dei mezzi tradizionali come la carta stampata e la TV continua a calare, ma online e social non colmano la differenza.

Lo vediamo in Italia, dove quasi tutti i quotidiani nazionali incluso Corriere della Sera e La Repubblica perdono lettori, e negli ultimi 10 anni l’informazione in TV ha visto scendere di 5 punti (dal 74% al 69%) la sua pervasività. L’uso dei social come mezzi di informazione è ancora doppio rispetto alla carta stampata e, sommato ai siti online, supera anche la televisione – ma anche i dati dei social sono in calo. Facebook resta la piattaforma preferita per cercare e diffondere notizie, ma soffre molto la competizione di YouTube e TikTok.

Con il portafoglio delle famiglie che risente della pressione dell’inflazione, è possibile che la crescita della propensione a pagare le notizie finisca per stabilizzarsi. Prendendo un campione di 20 paesi ad alto reddito pro-capite, Reuters ha rilevato che solo il 17% degli utenti totali paga l’informazione online – più o meno la stessa percentuale dell’anno scorso. La Norvegia ha la quota maggiore di paganti (39%), l’Italia ne ha il 12%, mentre Giappone (9%) e Regno Unito (9%) sono tra i paesi con i valori più bassi.

È così alta la qualità dell’informazione gratuita? Oppure le persone sono scontente delle notizie che pagano? Potrebbe essere anche una questione di fiducia. La ricerca di Reuters indica che la fiducia complessiva nelle notizie continua a diminuire e nell’ultimo anno ha perso altri 2 punti percentuali assestandosi al 40%. La Finlandia è il paese dove la fiducia è maggiore (69%), la Grecia è il fanalino di coda (19%). Il livello è abbastanza basso anche in Italia (34%), ma ci sono testate giornalistiche che godono di un apprezzamento ben sopra la media, come ANSA (78%) e Sky TG24 (71%).

A proposito di fiducia, il Digital News Report rileva uno scetticismo crescente verso gli algoritmi che selezionano le notizie che vengono proposte dai motori di ricerca, i social media e altre piattaforme online. Meno di un terzo delle persone (30%) pensa che vedere contenuti scelti sulla base della propria navigazione passata sia una buona idea, 6 punti percentuali in meno rispetto al 2016.

I dubbi sugli algoritmi rispondono alla più ampia preoccupazione sui meccanismi che portano giornalisti ed editori a cavalcare una certa notizia, e sul modo in cui il potere economico e politico di un paese o governo può influenzare il network globale dell’informazione. Se avevamo sperato che internet potesse dare voce alle istanze di un numero maggiore di paesi, magari poco considerati nello scacchiere mondiale, studi recenti mostrano uno squilibrio notevole nella produzione e diffusione delle notizie online.

Un gruppo di ricercatori dell’Università La Sapienza di Roma e dell’Università di Firenze, coordinati dal professor Walter Quattrociocchi, ha analizzato quasi 140 milioni di articoli da 183 paesi, confermando che esiste un “club ricco e profondamente interconnesso” di paesi produttori di notizie.

Le loro conclusioni [riassunte nel paper “The Drivers of Global News Spreading Patterns”, maggio 2023] evidenziano come il PIL nazionale resti un elemento chiave per avere un peso nell’agenda mondiale dell’informazione, mentre altri elementi, come la prossimità geografica e aspetti culturali come la lingua, giochino un ruolo nelle dinamiche di diffusione delle notizie.


longform

Longform: la lunghezza non spaventa se c’è qualità

Nel 2000 la nostra soglia media di attenzione era intorno ai dodici secondi, oggi si dice non superi gli otto. Forse è per questo che leggiamo molte più notizie sul web, ma siamo sempre più distratti e facciamo fatica ad andare oltre la prima schermata. Chi crea contenuti digitali ha in mente le 500 parole delle news, i 280 caratteri di Twitter, i 60 secondi dei video TikTok.

Eppure, i formati lunghi (longform) non sono del tutto scomparsi, anzi da qualche anno sono tornati a far parte dell’offerta di molti gruppi editoriali. In Italia abbiamo le analisi sportive de L’Ultimo Uomo, con tempi di lettura mai inferiori ai 5 minuti, ma sono ormai frequenti su contenitori generalisti come Repubblica.it e Corriere.it, anche come contenuti sponsorizzati. Esistono poi piattaforme internazionali – come Longreads e Longform – che raccolgono i migliori contenuti lunghi disponibili in Rete, raggruppandoli per argomento.

Il longform journalism è diventato una sorta di genere. Al di là della lunghezza del testo, parliamo di contenuti che vanno oltre la stretta cronaca o il suo commento, puntano all’approfondimento di fatti di ampio respiro (l’impatto della pandemia su settori e territori, i primi 100 giorni dell’amministrazione Biden, il caso Regeni, solo per citare qualche esempio recente) con un linguaggio che si avvicina più alla narrazione di una storia che al classico articolo di giornale. Non è un caso che spesso siano prodotti a più mani, mescolando competenze diverse per indagare meglio le sfumature politiche, economiche, sociali e culturali di ogni tema.

Così descritti, sembrerebbero destinati a un pubblico di nicchia, lettori affezionati e magari un po’ più preparati della media. Non è esattamente vero. Già nel 2015, una ricerca condotta dal Pew Research Center negli Stati Uniti aveva rilevato che gli articoli lunghi (oltre le 1.000 parole) e quelli corti hanno più o meno lo stesso numero di lettori, con un profilo abbastanza simile. Lo studio diceva anche che i longform riescono a coinvolgere l’utente per un tempo più che doppio degli shortform – segno che verosimilmente vengono letti fino in fondo, o quasi.

Cosa rende i longform adatti anche al grande pubblico? Due elementi meritano una riflessione. Intanto, la qualità del contenuto – che non è proporzionale alla lunghezza del testo (lo dice molto chiaramente l’ex direttore dell’Atlantic, James Bennet, in un editoriale contro l’uso del termine longform journalism), ma alla capacità di dare quel valore che interessa e tiene incollato chi legge, indipendentemente dal suo livello d’istruzione o dalla conoscenza del tema.

Poi, la tendenza dei longform a essere sempre meno testuali e sempre più multimediali. “Ci sono nuovi formati che sono in grado di esaltare e rendere attraente la lunghezza più di quanto riescano a fare gli articoli di testo: podcast, documentari, newsletter”, scrive Il Post nell’ultimo numero di Charlie.

Proprio la crescente popolarità dei podcast, con sessioni medie di ascolto che superano i 20-25 minuti, depone a favore dei formati tutt’altro che istantanei. Esempi dell’efficace integrazione di strumenti e risorse multimediali sono alcuni longform che hanno fatto scuola, come il viaggio del New York Times lungo la Via della Seta, l’inchiesta della BBC sui campi di reclusione in Cina, la scalata dell’Everest proposta dal Washington Post.

Per dirla con Sara Fischer, reporter della piattaforma Axios, “il longform journalism è più forte che mai. Si presenta solo in modo diverso”.


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L’anno del reset dei social media

La crisi climatica, il rinnovato interesse per i diritti civili, le elezioni presidenziali USA. Il 2020 sarà ricordato come l’anno della pandemia ma, per chi si occupa di comunicazione digitale, anche come la stagione in cui anche i più scettici si sono avvicinati ai social e alcune funzionalità prima poco note sono diventate all’improvviso popolari, tra cui gli eventi live o lo shopping tramite realtà aumentata.

Se i social sono cresciuti ed entrati nella quotidianità (in Italia sono 35 milioni gli utenti attivi, quasi 37 milioni in marzo durante il lockdown), è aumentata anche la consapevolezza delle distorsioni che le piattaforme possono generare, ad esempio fake news e spirali di disinformazione, bolle d’opinione, odio e voci distruttive.

Il 2020 sembra dunque suggerire l’inizio di una nuova fase. Ecco perché We Are Social ha titolato The Social Reset la ricerca annuale Think Forward che indaga le direzioni in cui si muove la comunicazione digitale.

“Negli ultimi mesi è cambiato tutto. Siamo stati costretti a usare i social, che sono passati da nemico pubblico numero uno a strumento essenziale. Ci siamo dovuti educare, in un processo di comprensione e disincanto, e abbiamo capito i perimetri delle varie piattaforme. Siamo in grado di selezionare meglio le informazioni, fruiamo i contenuti in maniera diversa”, spiega Bruno Tecci, head of strategy di We Are Social, presentando il rapporto. “Ci affacciamo al 2021 con una nuova consapevolezza: utilizziamo i social media come estensione del mondo reale, prestiamo più attenzione a quello che leggiamo e diamo più importanza a quello che pubblichiamo. E quindi, forse, stiamo andando nella giusta direzione”.

Delle sei tendenze evidenziate dallo studio, la più interessante è quella definita Simple life, ovvero l’uso dei social per semplificare la comprensione e l’interazione con il mondo. A livello pratico, questo si traduce in due tipi di comportamenti in apparenza opposti. Da un lato, si frequentano i social per entrare in contatto con le comunità – virtuali in alcuni casi, reali in molti altri – di cui si condividono interessi e valori. Pensiamo ad esempio al fenomeno delle social street di Bologna e Milano, gruppi spontanei che si aggregano su Facebook per scambiare informazioni, contatti, servizi utili a chi vive in un certo quartiere. Oppure alle numerose campagne di crowdfunding per sostenere le attività colpite dal Covid-19, come i bar, le palestre o i cinema, lanciando dei meccanismi di couponing o raccolte solidali.

Dall’altro lato, il report evidenzia che, per una buona fetta di utenti, la Simple life si traduce nel desiderio di evadere dalla complessità della realtà, cercando online un mondo alternativo in cui rifugiarsi per un momento di relax. Da qui il successo di giochi come Animal Crossing con i suoi avatar ultra personalizzati, ma anche le feste virtuali su Minecraft con cui tanti ragazzi hanno festeggiato la promozione la scorsa estate.

Significativo anche il trend definito Reliable idols. In un tempo in cui il confine tra informazione e intrattenimento è abbastanza labile, le persone guardano agli influencer non solo come fonte di consigli per gli acquisti, ma come voce autorevole su temi di attualità. Anzi, sempre più ci aspetta che gli influencer mettano la propria visibilità al servizio di cause importanti, e sempre più ci allontana da chi non riesce a fare questo “salto di qualità”.

Qualche esempio? Celebri (e non senza polemiche) i casi dei Ferragnez ingaggiati per ricordare l’uso della mascherina, Selena Gomez impegnata a far uscire dall’ombra chi soffre di depressione, oppure lo youtuber @nels9bills che promuove l’importanza dell’educazione finanziaria tra i più giovani. Un nuovo modo delle celebrity di proporsi nell’arena social e – per le aziende – una potenziale nuova strada per l’influencer marketing.

L’approccio fluido della Generazione Z alla creazione di contenuti è l’elemento che sostiene un altro trend rilevante, quello della creatività collaborativa, ovvero la possibilità di coinvolgere il proprio pubblico nella co-progettazione dei contenuti, utilizzando i social come piattaforma di co-realizzazione. Lo fanno sempre più spesso cantanti e artisti (Dua Lipa ha raccolto oltre 1,4 miliardi di visualizzazioni in 6 settimane sollecitando via TikTok contributi per il suo ultimo video musicale), possono farlo anche i brand integrando gli user generated content nelle loro strategie di content marketing.