Pregiudizi inconsapevoli, la formazione aiuta

È la trappola dei pregiudizi inconsapevoli, quell’insieme di stereotipi che influenzano, senza che ce ne rendiamo conto, la percezione che abbiamo degli altri, i giudizi che formuliamo su persone e situazioni, di conseguenza le nostre scelte.

Le scienze comportamentali spiegano che l’origine dei pregiudizi inconsapevoli è nel nostro cervello. Secondo Daniel Kahneman, l’essere umano è capace di due modalità di pensiero: una lenta (“Sistema 2”), che usiamo per i ragionamenti complessi e le attività mentali impegnative, e una veloce (“Sistema 1”), che entra in gioco nella quotidianità offrendoci delle scorciatoie per reagire a ciò che accade prendendo decisioni rapide.

Proprio queste scorciatoie ci spingono verso i luoghi comuni, le persone simili a noi e la ripetizione di comportamenti già vissuti, mentre ci fanno respingere coloro che percepiamo come diversi, dunque “faticosi” da incasellare nei nostri schemi.

A questo si aggiungono le convenzioni e le dinamiche sociali in cui siamo immersi. Già da bambini ascoltiamo espressioni linguistiche di pregiudizio, assistiamo ad episodi di discriminazione e, pur senza capirne il significato, finiamo per interiorizzali. Una volta appresi, questi modelli sono resistenti al cambiamento e ci condizionano anche quando pensiamo di averli superati.

Le conseguenze negli ambienti di lavoro possono essere serie, dai pregiudizi si può arrivare fino a vere e proprie discriminazioni – in fase di selezione, nelle politiche retributive, nei percorsi di carriera, ma anche nelle riunioni e nelle pratiche day-by-day dei singoli e dei team.

Da qualche anno molte aziende hanno preso coscienza della situazione e avviato programmi orientati all’inclusione e la valorizzazione della diversità. La lotta ai pregiudizi inconsapevoli è parte di questi programmi e in genere comincia con gli Implicit Association Test (IAT, Test d’Associazione Implicita), ovvero dei questionari che aiutano le persone a rendersi conto delle divergenze tra valutazioni consapevoli e inconsapevoli.

Seguono training più o meno estesi, che spiegano i meccanismi che alimentano pregiudizi e stereotipi, le conseguenze negative che hanno nelle organizzazioni, e danno qualche indicazione per cambiare. Tutto a posto, dunque?

No. Il professor Edward Chang della Harvard Business School ha condotto indagini approfondite in un’azienda dove qualche migliaio di dipendenti aveva seguito dei training sulle discriminazioni di genere. Le verifiche condotte tre e sei settimane dopo la formazione hanno rilevato che i loro atteggiamenti verso le donne erano sostanzialmente invariati. “I nostri risultati suggeriscono che i training una tantum, comuni in molte organizzazioni, non sono efficaci nello stimolare cambiamenti duraturi dei comportamenti”, ha riferito Chang al Guardian.

Diversi altri esperimenti hanno portato a conclusioni simili, mettendo in discussione la metodologia IAT e i budget spesi per i training. Non tutto è da buttare, ovviamente, ma il principale difetto dei training contro i pregiudizi inconsapevoli è che si fermano proprio dove dovrebbero iniziare.

Come migliorare? Si può cominciare dalla composizione dei gruppi di partecipanti, mescolando colleghi provenienti da team diversi e con background il più possibile eterogenei. Questo favorisce la conoscenza reciproca e può innescare un cambiamento positivo, ad esempio incoraggiando le persone ad allargare le loro frequentazioni nei momenti informali come la pausa pranzo o il tragitto casa-ufficio.

L’ingrediente più importante è il coinvolgimento. Non basta parlare dei pregiudizi inconsapevoli e fare degli esempi, i partecipanti devono sperimentare situazioni concrete, provare in prima persona come agisce il pregiudizio e quale impatto può avere. Si possono ad esempio proporre simulazioni e giochi di ruolo, in cui ciascuno possa vivere lo stesso scenario da punti di vista diversi e confrontare reazioni ed emozioni.

Il training deve dare degli strumenti concreti, suggerendo espressioni linguistiche, prassi e comportamenti che, nel tempo, possano scardinare gli schemi consolidati e mettere fine a ogni forma di discriminazione.

Soprattutto, deve essere il punto di partenza di progetti di cambiamento culturale di ampio respiro, che non si esauriscono in poche sessioni, ma hanno un orizzonte di medio-lungo termine. Per questo è fondamentale definire un set di metriche da verificare periodicamente, in modo che le persone possano vedere cosa e quanto sta cambiando, e in che direzione l’organizzazione si sta muovendo.


bugia

Stai mentendo, te lo leggo in faccia

Secondo la definizione Treccani, la bugia è l’alterazione, la negazione o l’occultamento consapevole e intenzionale della verità. Chi mente dunque sa di mentire, ed è pronto a mettere in campo tutte le strategie che conosce per essere creduto, articolando bene la sua storia, studiandone i dettagli, calibrando il racconto parola per parola.

C’è un aspetto che però non è tanto facile da gestire: perché la bugia funzioni, bisogna riuscire a dissimulare le emozioni che essa suscita. Salvo i mentitori patologici e gli attori nati, la maggior parte delle persone non riesce a controllare perfettamente il proprio linguaggio paraverbale (la voce) e non verbale (la mimica, la postura e la gestualità), soprattutto quando la menzogna genera un’emozione molto intensa come la rabbia o il panico, quando diventa troppo forte la paura di essere scoperti, quando si è sopraffatti dal senso di colpa collegato all’inganno o all’atto stesso di mentire.

Lo psicologo americano Paul Ekman ha condotto fin dagli anni Settanta ricerche ed esperimenti sulla rappresentazione delle emozioni attraverso le espressioni facciali. Partendo dall’idea che sono pochissimi coloro che in situazioni reali sanno sostenere una ‘poker face’, ovvero il viso totalmente inespressivo tipico dei giocatori di carte, Ekman ha esaminato e confrontato centinaia di contesti diversi, dalle relazioni coniugali ai colloqui medico-paziente, dagli interrogatori di polizia ai confronti fra avversari politici.

Spesso si dice che, quando qualcuno si tocca il naso durante una conversazione, probabilmente sta nascondendo qualcosa. Dagli studi di Ekman sappiamo però che la voce, la postura e la gestualità sono abbastanza facili da educare, per cui poco attendibili come indizi di falso. Anche quando notiamo la voce più stridula, la maggior frequenza di un tic nervoso o di uno dei cosiddetti gesti di manipolazione (rigirare l’anello sul dito, arrotolare una ciocca di capelli, mangiarsi le unghie, lo stesso toccarsi il naso), possiamo dedurre che il nostro interlocutore sia a disagio per qualche motivo, ma non possiamo avere la certezza che stia raccontando una bugia.

Escludendo di poter misurare nella quotidianità le alterazioni somatiche prodotte dal sistema nervoso autonomo in caso di emozioni intense (la respirazione accelerata, la sudorazione, il rossore, la dilatazione delle pupille, ecc.), Ekman suggerisce di prestare molta attenzione al viso, che è fonte di moltissime informazioni perché mescola espressioni volontarie e mimiche involontarie. Se da un lato il volto aiuta il bugiardo a mentire, rappresentando quello che vorrebbe farci credere, dall’altro dice la verità perché mostra almeno una parte di quello che vorrebbe dissimulare.

Contrariamente a quanto si pensi, non sono gli occhi il vero specchio dell’anima, né esiste un’espressione che al 100% possiamo collegare alla sincerità. Secondo Ekman, il viso lascia trasparire le emozioni autentiche di una persona attraverso le microespressioni, ovvero mimiche emotive complete, in genere a tutto viso, che durano meno di un quarto di secondo. Quando riusciamo a intercettarne una, possiamo essere ragionevolmente certi di aver colto il reale stato emotivo di chi abbiamo di fronte. Le espressioni artefatte, da osservare con sospetto perché possibili segnali di una bugia, tendono a essere asimmetriche oppure più accentuate in una metà del visto, restano invariate piuttosto a lungo e in genere non sono ben sincronizzate con le parole e i gesti di chi sta mentendo.

Come smascherare, ad esempio, un falso sorriso? Ekman direbbe che il sorriso menzognero coinvolge solo le labbra e la parte inferiore del viso, modifica poco o per nulla le guance e la zona sotto gli occhi, non fa abbassare le sopracciglia. È più asimmetrico di uno sentito, scompare troppo bruscamente e non corrisponde alla conversazione in corso.

L’interpretazione degli indizi comportamentali richiede comunque alcune cautele, perché non tutte le mimiche e gli indizi hanno una spiegazione univoca. Ognuno di noi ha un’espressività particolare, che bisognerebbe conoscere bene per evitare di equivocare alcuni segni, inoltre la valutazione potrebbe essere inquinata se chi osserva ha un preconcetto sul sospettato, oppure se il contesto diventa elemento di disturbo. Basandosi solo sull’analisi del linguaggio paraverbale e non verbale si rischia di incorrere in un falso positivo, giudicando bugiardo un onesto, oppure in un falso negativo, finendo per cadere nel tranello della bugia.

Nessuno vuole fare l’errore di Otello, che nella tragedia shakespeariana uccide la moglie Desdemona perché attribuisce il suo dolore alla notizia della morte dell’amante, mentre in realtà lei è disperata perché sa di non poter convincere il marito della sua innocenza. Meglio dunque usare più tecniche di indagine, confrontando i risultati per evitare di prendere un granchio.


comunicazione Covid-19

Formazione, la gamification batte tutti

Si parla di gamification fin dal 2004, ma è stato il professor Jesse Schell nel 2010 a far scoppiare il caso dal palco della Dice Conference di Las Vegas, ipotizzando un futuro dove il gioco non sarà più confinato ad alcuni oggetti o momenti, ma contaminerà qualsiasi attività personale e professionale. Forse non siamo ancora a quel punto, ma la gamification è entrata a passo deciso nelle aziende, diventando uno strumento per il marketing e le vendite, la comunicazione e la formazione.

Il gioco prevede un obiettivo da raggiungere, contiene una sfida che i partecipanti possono affrontare da soli o in squadra, ha delle regole che delimitano il perimetro d’azione, comporta dei rischi, ma soprattutto è divertente. Il mix di questi elementi rende la gamification adatta a raccontare una storia facendo diventare le persone parte attiva della narrazione, con il beneficio di aumentare la comprensione e il ricordo dei contenuti, oltre al coinvolgimento personale.

Benché il concetto sia valido anche nel mondo analogico, la maggior parte delle organizzazioni usa la gamification declinata al digitale, progettando giochi da condividere online o sui social - ad esempio per promuovere un prodotto o fidelizzare i consumatori, spingendoli a diventare brand ambassador. È nella formazione aziendale che troviamo alcune delle applicazioni più interessanti, che piacciono soprattutto alle Generazioni Y e Z, ma sono efficaci con qualsiasi gruppo e a tutti i livelli dell’organizzazione.

Il gioco è infatti un approccio molto utile per affrontare la complessità che manager e dipendenti incontrano nel loro lavoro, poiché stimola le persone ad applicare i principi del problem solving e la cosiddetta ridondanza cognitiva, ovvero la capacità di vedere un problema da prospettive diverse per progettare soluzioni differenti.

Tra i casi che hanno fatto scuola negli ultimi anni c’è la compagnia assicurativa americana Allstate Insurance CO., che ha usato la gamification per formare i dipendenti sui temi della privacy. I partecipanti venivano calati in un’esperienza immersiva vestendo i panni di un supereroe chiamato a combattere un nemico intenzionato a rubare i dati dei clienti. Nei vari livelli di gioco venivano trasferite le nozioni che gli utenti potevano subito mettere in pratica, delineando strategie e provando strumenti per evitare il furto dei dati.

Bluewolf, società di tecnologia partner di IBM, ha studiato un gioco con tanto di punteggi, classifiche e premi per spiegare ai collaboratori come usare i social e contribuire al consolidamento della reputazione digitale dell’azienda.

Coca-Cola FEMSA, imbottigliatore messicano di soft drink, ha invece scelto la gamification a supporto di un ambizioso programma di riorganizzazione interna e sviluppo della leadership. Quasi 850 manager e dipendenti hanno giocato con Pacific, un serious game in cui le persone si trovano abbandonate su un'isola deserta e devono affrontare diversi pericoli, fino a costruire una mongolfiera per scappare e mettersi in salvo. Dai dati raccolti attraverso una survey, il gioco è stato completato e apprezzato dal 100% degli utenti, e ha avuto un impatto positivo sul clima aziendale (+3 punti rispetto all'indagine precedente) e sulla fiducia verso colleghi e supervisori (+2 punti).


Fammi sentire come parli, ti dirò quanto guadagni

Lo studio, riportato da BBC, mostra che i CEO che hanno voci più profonde guadagnano in media 187 mila dollari in più rispetto alle ugole tendenti all’acuto, hanno carriere più lunghe e lavorano in aziende con risultati economici decisamente superiori. Tanto per fare un esempio, James Skinner, CEO di McDonald’s fino al 2012, ha una delle frequenze più basse tra quelle considerate dai ricercatori.

Alla base del legame tra voce e successo negli affari ci sono motivazioni di ordine biologico ed evoluzionistico (avete presente il ruggito del leone?), ma nella società contemporanea è soprattutto la percezione a fare la differenza. La bassa frequenza, tanto al maschile quanto al femminile, è generalmente associata a maggiore autorevolezza, competenza e capacità persuasiva. Parlare con toni profondi trasmette fiducia e sicurezza, dando subito l’impressione di trovarsi davanti a un leader.

L’importanza della voce nella comunicazione interpersonale è stata ampiamente studiata. Già alla fine degli anni Sessante, lo psicologo americato Albert Mehrabian teorizzò che i contenuti verbali incidono sull’efficacia di un discorso solo per il 7%, mentre gli aspetti paraverbali, ovvero la voce, il suo volume e ritmo, pesano per il 38% e le componenti non verbali (i gesti, la postura, ecc.) addirittura per il 55%. L’autore stesso precisò che questi numeri valgono quando si comunicano sentimenti e atteggiamenti, per cui – benché molto spesso citati – non possono essere riferiti a qualsiasi tipo di interazione.

Resta il fatto che un buon uso della voce sia fondamentale per rendere la comunicazione chiara ed efficace, soprattutto quando si parla davanti a una platea più o meno ampia. In vista di eventi, presentazioni o incontri importanti, è dunque utile lavorare con l’obiettivo di preparare e approfondire i contenuti dell’intervento da un lato, e perfezionare l’esposizione dall’altro. Per accendere e tenere alta l’attenzione del pubblico, mai sottovalutare elementi quali la postura, la mimica, il contatto visivo, la gestualità e – appunto – la vocalità.