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L’alfabetizzazione mediatica entra nelle scuole

In una società in cui i media sono onnipresenti, tanto in forma analogica quanto digitale, è anacronistico pensare che basti spegnere la TV e il cellulare, oppure stare lontani dai social, per proteggere i ragazzi da fake news, bolle d’opinione o messaggi indesiderati. Non solo: se anche riuscissimo a filtrare i contenuti con cui bambini e adolescenti vengono a contatto, avremmo risolto solo metà del problema. La sfida più importante si gioca su un piano ancora più complesso, ed è quella di aiutare i più giovani a dare un significato a quello che ascoltano, vedono o leggono, a capire cosa c’è dietro i contenuti che circolano sui media.

La scarsa consapevolezza con cui i ragazzi – e non solo loro! – usano i media sta diventando un guaio serio: ne parla un documentario prodotto da Netflix, The Social Dilemma, lo conferma purtroppo la cronaca con l’aumento delle vittime di giochi autolesionistici che girano sul web, la crescita del cyberbullismo e di alcuni disturbi adolescenziali.

Serve maggiore senso critico e più saggezza digitale, cioè la capacità di usare i media e la tecnologia per potenziare i propri processi sensoriali e cognitivi, accedendo alla conoscenza in maniera responsabile e creativa. La scuola non può sottrarsi a questo compito.

A scuola l’alfabetizzazione mediatica non è cosa del tutto nuova (pensiamo a progetti di successo come Quotidiano in classe, promosso dall’Osservatorio Permanente Giovani-Editori per le scuole superiori), ma deve oggi evolvere per dare ai ragazzi nuovi strumenti con cui decifrare come funzionano i media, come si costruiscono e circolano i contenuti, quali opportunità e rischi nascondono i linguaggi multimediali.

Alfabetizzazione mediatica significa aiutare gli studenti a diventare competenti, critici ed esperti di tutte le tipologie media, in modo che possano interpretare quello che vedono e ascoltano, invece di subire passivamente l'interpretazione che altri ne danno”, scrive Tessa Jolls, presidente dell’agenzia educativa Center for Media Literacy (CML). “In questo senso, essere alfabetizzati non vuol dire memorizzare fatti o statistiche sui media, ma sapere quali domande porre quando ci trova di fronte a un contenuto o si interagisce con esso”.

Proprio il CML ha sviluppato una metodologia didattica, adatta soprattutto alle scuole secondarie di primo e secondo grado, che accompagna i ragazzi a esplorare i media in modo critico, partendo da cinque semplici assunti di base e altrettante domande (nell'immagine di seguito) che ciascuno dovrebbe porsi davanti a un articolo di giornale, una trasmissione TV, un post social.

 

 

L’alfabetizzazione mediatica è un tassello importante nei percorsi di educazione civica, e rappresenta un valore aggiunto non solo per contrastare le derive generate dal cattivo uso dei media, ma soprattutto per aumentare nei ragazzi la consapevolezza del ruolo che i media hanno nella nostra società, rendendoli cittadini capaci di comprendere, valutare ed esprimersi in modo creativo, ma sempre responsabile e costruttivo.


Quando i like influenzano l'identità

Si è recentemente parlato, durante la Giornata (15 marzo) dedicata ai Disturbi del Comportamento Alimentare lanciata sei anni fa da Stefano Tavilla, presidente dell’Associazione “Mi nutro di vita”, della sempre più precoce età di insorgenza. I dati rilasciati dalla SIP, Società Italiana di Pediatria, sono allarmanti: già in bambine di 8 anni sono stati rilevati disturbi del comportamento alimentare tra i più comuni, quali anoressia o bulimia.

Questi disturbi sono noti da tempo e, da tempo, sono argomento diffuso – se ne parlava già negli anni ’80, quando il celebre serial Saranno Famosi dedicò una puntata a Holly che veniva addirittura ricoverata in ospedale a causa dei DCA – ma oggi c’è un nemico in più, il web, proprio perché (ab)usato da questo giovane pubblico.

La correlazione tra rischi per la salute e web è ormai nota da tempo considerato anche come l’emulazione trovi terreno fertile nei social. Pensiamo, ad esempio, a Instagram, famoso (anche) per mostrare fotografie di gente sempre contenta (e tendenzialmente magra). L’attimo fermato nello scatto – una volta pura forma d’arte che restituiva un ritratto, un oggetto, una situazione, e poteva farsi portavoce di messaggi anche politici (pensiamo solo ai ritratti di Frida Kahlo attualmente in mostra al MUDEC) – oggi è sì espressione di un racconto – il famoso storytelling – ma totalmente autoreferenziale e senza sbavature: al centro ci sono felicità, allegria, vita sociale ai massimi livelli in compagnia di persone più o meno famose.

Il punto è che i social sono rischiosi, e si devono usare con cautela e consapevolezza perché toccano da vicino alcuni aspetti fondamentali della vita quali la realizzazione e l’accettazione del sé. E, di conseguenza, l’autostima. Vedere personaggi famosi ritratti in situazioni “normali” come per strada, al cinema o a casa ma sempre al top, sempre belli e sorridenti, può essere frustrante, e non solo per gli adolescenti. Può far sentire brutti e inadeguati agli standard (quali standard, poi?), perché il meccanismo con cui agisce un social come Instagram è esattamente l’antitesi di quello dell’industria dei media e del cinema: le immagini dei divi del cinema degli anni ’50, ad esempio, suscitavano nel pubblico sogni e fantasie ma non emulazione, poiché erano volutamente troppo distanti dal reale proprio per “accendere” il sogno (e quindi andare al cinema e comprare i giornali patinati).

Con Instagram pensi invece di poter essere come i personaggi famosi eppure così “normali”: peccato che di normale in quelle foto non ci sia niente. Non è un processo ai social né a Instagram, ma una riflessione su come l’immagine diffusa attraverso la disintermediazione possa incidere pesantemente sulla percezione del sé che, oggi, si individua più facilmente nella taglia di un paio di jeans o in gambe molto magre che però raccolgono tanti like, piuttosto che nella consapevolezza delle proprie capacità. La causa risiede nella natura stessa del mezzo social (la cui platea è il mondo), ossia l’interazione immediata con l’altro, senza filtri (gli unici concessi sono quelli per apparire più belli), con lo scopo di ottenere l’approvazione attraverso appunto i cosiddetti like. Che sostituiscono l’identità. Cartesio diceva “cogito ergo sum”, parafrasando potremmo dire “posto, ergo sum”. 

A questo punto, l’identità non è più centrata sulle proprie caratteristiche psichiche ed emotive, ma esclusivamente (o principalmente) su quelle fisiche, peraltro da allineare a immagini statiche e standardizzate: non a caso le fashion blogger sono ritratte sempre con la stessa espressione, non passano un messaggio etico o morale (tranne naturalmente in alcuni casi, come ci rivela ad esempio il profilo di Natalia Vodianova, super modella russa che sensibilizza i suoi followers sul vivere con naturalezza il ciclo mestruale), lo scatto è finalizzato alla vendita di un prodotto, di un brand (Kim Kardashian l’ha capito prima di tutti), o di uno stile di vita. E quindi: smetto di esistere in quanto diverso dagli altri, ma esisto solo in quanto apprezzato dagli altri, in una forma passiva di riconoscimento del sé (non cerco di identificarmi versus l’altro, mi identifico con l’altro).

Esattamente l’opposto di quanto insegna la filosofia occidentale (la percezione del sé come distinto da ciò che è altro da sé). Con queste premesse, è importante proteggerci dai rischi cui possiamo incorrere da un uso scorretto dei social. A partire dall’adolescenza, quando il cervello cambia, si trasforma ed è quindi più sensibile a essere plasmato. Instagram e in generale i social sono un po’ scoppiati tra le mani, ma oggi siamo più consapevoli rispetto, ad esempio, a solo quattro anni fa.

Sappiamo che trascorrere troppo tempo sui social non rende felici: in un articolo apparso sulla rivista Theatlantic si parla di “generazione-I” - dove “I” non sta per “Io” ma per “I-phone” -, quella nata, per intenderci, tra il 1995 e il 2012 sostanzialmente cresciuta con gli smartphone, un account Instagram aperto prima di iniziare le medie e senza memoria di una vita precedente a internet (e come non pensare alla piccola Chloe, la figlia di Reese/Madeline di Big Little Lies sempre con lo smartphone in mano?).

Insomma, i social non sono da demonizzare ma bisogna saperli usare. Proprio come a 18 anni si prende la patente (sogno ambito dei Baby Boomers ma ormai dimenticato dai Millenials), oggi bisognerebbe introdurre una sorta di patente per l’uso dei social (anche perché sono ormai la piattaforma privilegiata dalle aziende per fare pubblicità, esponendo quindi gli utenti a continui consigli per gli acquisti più o meno subliminali). Qualche suggerimento pratico: intanto, meglio non aprire l’account prima dei 15 anni e, in quelli precedenti, lavorare con spassionata dedizione alla costruzione dell’io. Come? Come si è sempre fatto: praticando sport, stando all’aria aperta e condividendo il più possibile in famiglia. Vale anche per gli adulti.