Il gergo aziendale, comodo ma…
Pensare fuori dagli schemi. Essere dirompenti. Agire come una startup. Quando sentiamo tre persone usare queste espressioni, probabilmente intendono dirci qualcosa di abbastanza simile, ma le parole che scelgono suggeriscono anche da quale organizzazione provengono. Ogni settore, azienda e professione ha infatti il suo gergo.
Molti di noi non amano il gergo e, appena lo riconoscono, lo etichettano come pretenzioso, superfluo, difficile da capire. Ciò nonostante, il gergo è una costante di tutte le organizzazioni e crea un codice linguistico condiviso tra i suoi membri. Il gergo è fatto di termini, espressioni, acronimi, metafore e modi di dire che in genere richiedono un background comune per essere compresi fino in fondo.
Può essere fastidioso, ma è anche utile. Nella comunicazione aziendale contribuisce a rendere più efficienti e precise le interazioni tra pari e fra team, rafforza i legami sociali e favorisce la costruzione di un’identità e una cultura condivisa. Quando si è parte di un’organizzazione o un gruppo professionale, è più semplice e conveniente adottare il linguaggio che anche gli altri usano.
Alcuni ricercatori americani hanno però dimostrato che esiste un’altra ragione, in genere inconscia, per usare il gergo: si tratta dell’insicurezza e del desiderio di acquisire uno status professionale più elevato. I test che hanno condotto mostrano che le persone meno sicure di sé tendono a conformarsi più frequentemente al gergo aziendale e persino a imitare il linguaggio del proprio capo. Analogamente, molti tendono a compensare uno status inferiore con il gergo, nel tentativo di darsi un tono e offrire un’idea migliore di se stessi.
Dobbiamo sempre fare attenzione all’effetto della nostra comunicazione su chi ci ascolta. Usare o meno il gergo deve quindi essere una scelta consapevole. Il gergo potrebbe essere una buona idea per velocizzare la comunicazione interna, specie se stiamo parlando con colleghi esperti di un argomento tecnico, oppure per consolidare il senso di appartenenza.
Ma potrebbe essere un errore se rende la comunicazione incomprensibile a un interlocutore esterno all’organizzazione, perché potrebbe ritorcersi contro di noi e generare equivoci, rifiuto e chiusura. Il gergo può far sentire escluse le persone, sembrare vuoto o persino falso, manipolatorio.
Per capire se e quando il gergo rappresenta una risorsa o un potenziale boomerang, proviamo a usare questa semplice check list:
- Pensiamo agli interlocutori e al contesto
A chi stiamo parlando o scrivendo? Riusciranno a capire il significato delle parole, le espressioni e gli acronimi che usiamo? Hanno lo stesso nostro background?
In certe situazioni, come una riunione interna o una presentazione commerciale, un po’ di gergo (non troppo…) può aggiungere autorevolezza, dunque essere rassicurante. Se però affrontiamo un pubblico più ampio ed eterogeneo, sarebbe meglio usare un linguaggio chiaro e privo di ambiguità. Se dovessimo dirlo con un acronimo, per giunta inglese… meglio che il nostro discorso sia KISS, ovvero semplice e sintetico (Keep It Simple and Short).
- Guardiamoci allo specchio
Abbiamo mai riletto le nostre mail, i documenti o le presentazioni? O riascoltato la registrazione di un nostro discorso? Come suonano, quale impressione danno?
Se esiste un modo più semplice, non gergale, per dire la stessa cosa, sarebbe meglio rivedere il nostro linguaggio. Se non siamo certi dell’efficacia della nostra comunicazione, proviamo a confrontarci con qualcuno di cui ci fidiamo.
- Mettiamoci alla prova
Non c’è miglior modo di migliorare le nostre capacità comunicative che mettersi alla prova. Quando ci prepariamo per una presentazione o un incontro importante con interlocutori interni o esterni, prendiamo del tempo per fare delle prove, facendo attenzione al linguaggio verbale (incluso il gergo) nonché all’uso della voce, la postura e la gestualità.
Quando il dipendente sui social diventa un problema
La comunicazione di un brand vive sempre meno dei contenuti veicolati attraverso i canali ufficiali, e sempre più di quello che le persone vivono e raccontano, siano esse clienti, consumatori o meglio ancora dipendenti. Proprio i collaboratori sono diventati – grazie alla Rete – i primi ambasciatori dell’azienda, la cui narrazione cambia, si arricchisce e trasforma attraverso i loro volti e la loro esperienza.
Diverse ricerche hanno provato a quantificare gli effetti positivi del dinamismo social dello staff, scoprendo ad esempio che il coinvolgimento rispetto a un contenuto può aumentare di oltre 5 volte se questo viene condiviso da un dipendente, che il 44% degli utenti LinkedIN si candida più volentieri per una posizione aperta se questa viene segnalata da un conoscente, che i programmi di employee influencer possono far aumentare il fatturato del 26% da un anno all’altro [qui un’infografica che riassume vari studi disponibili sul tema].
Se molte aziende invitano esplicitamente i collaboratori (anche attraverso incentivi) a promuovere il brand e i suoi contenuti sui social, ci sono alcuni effetti collaterali da considerare e possibilmente prevenire.
Sui tempi e le modalità di utilizzo dei social, ad esempio. Incoraggiare le persone a diventare una voce narrante significa autorizzarle a usare le piattaforme in orario di lavoro e attraverso gli strumenti aziendali. Senza arrivare al caso della segretaria di uno studio medico licenziata per l’accesso smodato e ingiustificato a Facebook, si dovrà tollerare che qualcuno ceda alla tentazione di utilizzare i social in ufficio anche per scopi privati, e attrezzarsi per aumentare le difese in fatto di cybersicurezza.
Controllare quello che i dipendenti postano (o non postano) è un altro grande tema. Dal punto di vista dell’azienda, il monitoraggio dei profili personali dei collaboratori è importante per verificare che non vengano rese pubbliche informazioni confidenziali, né vengano diffusi contenuti denigratori o comunque lontani dallo storytelling desiderato. Ma fin dove è lecito esercitare questo controllo, e con quali strumenti?
In Italia, diverse sentenze hanno stabilito che i social non sono indenni dal reato di diffamazione e, di conseguenza, il dipendente che pubblica contenuti ingiuriosi o offensivi nei confronti del datore di lavoro può essere oggetto di provvedimenti disciplinari e persino licenziato. E non è una scusa il fatto che la persona fosse molto stressata, o avesse inteso le sue affermazioni come uno sfogo personale fine a se stesso (così si esprime la sentenza della Cassazione n. 10280/2018).
La definizione di una policy chiara e condivisa per l’utilizzo dei social media è quindi più urgente che mai, sia per scongiurare comportamenti pericolosi per la reputazione dell’azienda, sia per innescare il volano positivo dell’employee advocacy. Al di là delle regole, è però la maturità delle persone a fare la differenza – decidere cosa è opportuno postare e cosa no, quali parole usare e quali immagini scegliere, è (anche) questione di sensibilità e buon senso.
Resilienza o antifragilità?
Resilienza è tra le parole più usate (e abusate) dell’ultimo anno. La nozione, che nella fisica dei materiali definisce la capacità di assorbire un urto senza rompersi, è stata portata nelle scienze sociali e in economia per descrivere la capacità di un individuo o un’organizzazione di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà, riuscendo comunque a raggiungere i propri obiettivi.
Rispondendo a una lettrice di D La Repubblica, il filosofo Umberto Galimberti ha tuttavia sottolineato come parlare di persone resilienti sia fuori luogo, perché significa “trattare l’uomo alla stregua di un materiale fisico (…) e trascurare il fatto che l’uomo non è una cosa”. Se alle obiezioni concettuali aggiungiamo una certa stanchezza dovuto alla ripetizione esagerata, ecco irrompere sulla scena un’altra parola chiave, antifragilità.
L’idea non è nuova. Nel 2012, il filosofo e matematico Nassim Nicholas Taleb aveva descritto l’antifragilità come il superamento della resilienza e della robustezza. La differenza fondamentale è che, mentre una cosa resiliente resiste agli shock ma rimane la stessa di prima, l'antifragile reagisce alla difficoltà dando luogo a qualcosa di diverso e migliore. Taleb spiega che l'antifragilità sa convivere con l’incertezza e accetta la propria vulnerabilità, per cui prende forza e ispirazione dagli ostacoli per puntare a traguardi più ambiziosi di quelli inizialmente sperati.
È facile applicare in teoria in ambito sportivo, dove gli atleti devono imparare dalle sconfitte o dagli infortuni per tornare a essere, non solo come prima, ma ancora più forti. Proprio dallo sport lo psicologo Giuseppe Vercelli, docente dell’Università degli Studi di Torino, ha mutuato i quattro pilastri dell’antifragilità, ovvero l’adattamento proattivo che esprime la capacità di reagire con prontezza di fronte a un problema, l’evoluzione agonistica che spinge a cercare le situazioni nuove e le sfide, l’agilità emotiva che trasforma l’emozione in energia costruttiva, infine la distruttività consapevole che permette di abbattere ostacoli e pregiudizi in vista del nuovo obiettivo da raggiungere.
L’antifragilità è quindi uno stato anzitutto mentale, potenzialmente presente in ogni individuo e allenabile. Se esistono persone così, ci sono anche organizzazioni antifragili?
Il percorso per maturare l’antifragilità in azienda non è semplice e richiede un preciso pensiero strategico, da cui discende l’attivazione di diverse leve organizzative e gestionali, inclusa la comunicazione interna. Le esperienze raccolte da Ruling Companies in occasione di un recente webinar mostrano che la pandemia Covid-19, sovvertendo buona parte dei modelli comportamentali e delle abitudini, ha rivelato in alcuni casi un’inaspettata creatività e uno spirito antifragile nelle persone, ad esempio nell’inventare modi nuovi per rendere più efficace il lavoro a distanza, oppure nel rimettere in discussione i processi consolidati per arrivare ad obiettivi non meno ambiziosi di quelli precedenti.
“L’antifragilità è contagiosa”, ha detto Emanuela Teatini, direttore organizzazione e risorse umane di MM Metropolitana Milanese, sottolineando come un atteggiamento di questo tipo possa contribuire a stimolare l’innovazione anche in realtà di matrice tradizionale, come quelle del settore pubblico.
Perché l’organizzazione sia o diventi antifragile, tre sono gli aspetti da non sottovalutare. Intanto la necessità di una leadership antifragile, che possieda questa competenza e sappia portarla nel lavoro quotidiano del proprio team, sviluppando e diffondendo questo stato mentale all’interno dell’azienda. In seconda battuta, l’importanza di un chiaro orientamento all’antifragilità nella selezione del personale e nelle politiche di talent management, andando a cercare e poi valorizzare collaboratori capaci di crescere e far crescere anche in contesti contrastati e difficili. Infine, una comunicazione che sappia costruire uno storytelling improntato all’antifragilità, coinvolgendo le persone per aumentare la loro motivazione e la fiducia.
Se però l’antifragilità non è un atteggiamento coerente con i valori e il purpose dell’azienda, si potrà far ben poco, ha commentato Mario Perego, direttore risorse umane di Heineken Italia. Un richiamo opportuno, soprattutto in questo momento, all’autenticità delle scelte organizzative e della relativa comunicazione.
La comunicazione interna cresce con le neuroscienze
Mentre cresce l’utilizzo del neuromarketing per comprendere meglio i comportamenti dei consumatori e come intercettare le loro emozioni, sempre più i principi delle neuroscienze vengono usati per indagare le relazioni sul posto di lavoro, in cerca di nuovi strumenti per migliorare il clima interno, aumentare il coinvolgimento e la motivazione delle persone.
Celebre il caso di ATM, l’azienda di trasporti che insieme all’Università Cattolica di Milano ha applicato le neuroscienze all’analisi di alcune dinamiche organizzative, in particolare quelle che si attivano tra capo e collaboratore durante i colloqui di valutazione dei risultati individuali. È in genere un momento dal forte contenuto emotivo, che può mettere a disagio tanto chi giudica, quanto chi viene giudicato.
Il progetto di ATM ha visto una prima fase in cui sono stati registrati i colloqui per fare una mappatura semantica delle conversazioni, andando cioè a isolarne gli argomenti, i toni e le correlazioni. Successivamente, è stato chiesto un gruppo di volontari di sottoporsi al colloquio indossando delle attrezzature adatte a misurare la loro attività cerebrale tramite un encefalogramma, e alcuni parametri come la frequenza cardiaca e la conduttanza cutanea. L’obiettivo era quello di verificare in quali condizioni le due persone – o meglio i loro cervelli – si sintonizzano l’uno sull’altro, ovvero scatta una reale empatia fra capo e collaboratore.
Gli esperimenti hanno dimostrato che la migliore sincronia cerebrale si realizza quando il capo tende ad avere un atteggiamento partecipativo, quando si parla di progetti futuri e condivisi, quando la valutazione non è il fine della conversazione, ma solo il punto di partenza. Non si tratta certo di conclusioni sorprendenti, ma la disponibilità di evidenze scientifiche rende il progetto particolarmente interessante.
La rielaborazione dei risultati ha tra l’altro permesso ad ATM di modificare alcuni elementi del processo di valutazione dei dipendenti, introdurre nuove attività di formazione a supporto della leadership, migliorare più in generale la comunicazione interna.
Comunicazione, engagement e felicità
Quanto sia importante la partecipazione e il coinvolgimento delle persone per il successo di un’azienda è cosa nota. I collaboratori engaged contribuiscono ad aumentare le vendite e la soddisfazione dei clienti, rendono i processi più efficienti, consolidano la reputazione del brand e le relazioni con gli stakeholder, stimolano l’innovazione, aiutano persino a prevenire le situazioni di crisi.
Un recente studio dell’Osservatorio Employee Relations and Communication dell’Università IULM ha sottolineato come spesso il concetto di engagement sia considerato in modo parziale, definendolo come la connessione psicologica ed emozionale con la mission e i valori aziendali. Si perde così la parte più importante, ovvero il coinvolgimento comportamentale, che traduce l’engagement in azioni a favore dell’azienda. La persona engaged partecipa alla vita d’impresa non solo impegnandosi a raggiungere gli obiettivi assegnati, ma anche esprimendo la propria voce. Si crea, in altre parole, quel volano positivo per cui il dipendente non ha timore di condividere idee e perplessità con i colleghi e il management, agisce come brand ambassador e, se necessario, difende la reputazione e l’onorabilità dell’azienda.
Per costruire un contesto organizzativo engaging occorre muovere strategicamente diverse leve, a partire da una gestione meritocratica e lungimirante delle risorse umane. La comunicazione interna è un ottimo alleato, a patto che sia autentica e ben concertata. Qual è la relazione tra comunicazione, engagement e felicità sul posto di lavoro? Le aziende intervistate da Valore D al Tempo delle Donne, lascorsa settimana a Milano, non hanno dubbi. Una comunicazione efficace è essenziale per incoraggiare la partecipazione delle persone, creare un clima di fiducia (presupposto di qualsiasi innovazione), favorire l’inclusione e la valorizzazione dei talenti.
Non c’è però consenso unanime sugli strumenti da usare per sollecitare il tanto auspicato coinvolgimento. Se in alcuni casi la tecnologia offre una risposta all’esigenza di rendere più fluido lo scambio di informazioni e la condivisione di conoscenza – si pensi alle piattaforme collaborative, i wiki, i sistemi di messaggistica, ecc., la cui adozione è spesso legata a programmi di smart working – manager e collaboratori hanno opinioni diverse.
Secondo l’Osservatorio dell’Università IULM, il management tende a pensare che siano sufficienti strumenti mediati come le e-mail, le newsletter, le intranet o i blog aziendali. I dipendenti ritengono invece più utili le riunioni e gli incontri diretti, meglio se in contesti informali, dove più facilmente si può instaurare quel dialogo che è una delle caratteristiche – e degli effetti – dell’engagement.
Quando il brand ambassador è un dipendente
L'Employee Advocacy vuole sollecitare le persone a sostenere e promuovere il brand attraverso la condivisione di contenuti sui profili social personali, ma anche tramite blog, forum e gruppi di discussione.
Il potenziale è molto elevato, perché chi frequenta i social è più incline a prestare attenzione ai contenuti di un brand se questi provengono da chi lavora all’interno dell’azienda. Su LinkedIn, ad esempio, alcune ricerche dimostrano che uno stesso post viene cliccato il doppio delle volte se è condiviso dai dipendenti, mentre i risultati si dimezzano quando viene pubblicato dall’account aziendale.
L’attivazione dei collaboratori non può ovviamente prescindere da una sana e virtuosa gestione delle relazioni interne e dalla creazione di un ambiente di lavoro in grado di ispirare, motivare e premiare i talenti. Va inoltre sottolineato che non tutti i dipendenti hanno le caratteristiche e la volontà di diventare brand ambassador: la scelta più efficace è di solito quella di selezionare i cosiddetti ‘Champion’, ovvero un gruppo di persone che, più attive sulle piattaforme digitali e maggiormente coinvolte nel progetto aziendale, possano per prime farsi coinvolgere e contaminare a cascata i colleghi.
La progettazione di uno storytelling ‘employee-friendly’ è il vero elemento critico per il successo di qualsiasi iniziativa di Employee Advocacy. Non possiamo pensare che le persone siano disponibili a condividere contenuti dai toni troppo promozionali e autoriferiti, oppure noiosi e lontani dalla propria sfera di interessi e passioni. Anche l’occhio vuole la sua parte, ed è per questo che immagini e video sono molto utili per aumentare la propensione alla viralità. Occorre infine una pianificazione sensata, per non rischiare una sovrabbondanza di contenuti che si tradurrebbe inevitabilmente nella saturazione dei canali e nel calo dell’interesse da parte di chi legge.
Qualche esempio da tener presente? Cercate hashtag diventati celebri come #LifeatLoreal, #LoFaccioPerché o #ProudFerrerian: scoprirete cosa scrivono e come si raccontano i dipendenti ambasciatori di L’Oreal, Decathlon e Ferrero.