“Ma io intendevo dire….”: trovare le parole giuste per esprimere un concetto o un sentimento non è sempre facile, sia quando la conversazione è personale, sia quando a parlare è il portavoce di un’azienda, un partito o un’istituzione. Dalla difficoltà di far coincidere il nomen (il nome, il termine che si usa) con la res (la cosa che si vuole comunicare) nascono tante incomprensioni, con la necessità – sempre più frequente – di intervenire a posteriori per chiarire il malinteso, correggere una dichiarazione, smorzare l’incendio social che nel frattempo potrebbe essere divampato.
Ma perché non sempre riusciamo a tradurre il nostro pensiero nel linguaggio appropriato? Secondo Confucio, sono tre gli errori che si possono fare quando si parla. Come riassume il filosofo Vito Mancuso nel saggio I quattro maestri, il primo errore da evitare è la precipitazione, cioè la fretta di dire qualcosa quando non è il momento o non se ne sa abbastanza. Il secondo, per certi versi speculare, è l’omissione, in cui si cade quando non si dice quello che si sa benché sia il momento di farlo. C’è poi la cecità, che riguarda l’incapacità di adattare il nostro parlare al contesto e allo stato d’animo di chi ascolta (ovvero di essere in sintonia con il target, volendo usare il lessico del marketing).
La difficoltà di trovare le parole giuste può complicare le relazioni interpersonali, ma le conseguenze possono essere molto serie anche in azienda, a scuola, in piazza, in televisione e sui social. Se è vero che ne uccide più la lingua che la spada, la comunicazione merita di essere gestita sempre con grande senso di responsabilità, valutando accuratamente ciò che si dice, dove, quando e come lo si dice.
Scrive Gianrico Carofiglio in Passeggeri notturni: “Le parole che utilizziamo possono avere un impatto straordinario non solo sulle nostre vite individuali, ma anche su quelle collettive. Le parole creano la realtà, fanno – e disfano – le cose; sono spesso atti di cui bisogna prevedere e fronteggiare le conseguenze, in molti ambiti privati e pubblici”.
Un buon comunicatore dovrebbe saper dare il nome giusto alle cose. Confucio riferiva questa capacità tra le competenze essenziali di ogni politico. Negli Analecta, il testo che secondo la tradizione raccoglie le testimonianze dei suoi insegnamenti, c’è un passo – anche questo riportato da Mancuso – dove un discepolo chiede al maestro quale sarebbe stato il primo provvedimento che avrebbe preso se fosse stato al governo. Confucio non esita a rispondere che la priorità sarebbe stata la rettificazione dei nomi: “Se i nomi non aderiscono al proprio significato, i discorsi saranno privi di rapporto con la realtà; se i discorsi sono privi di rapporto con la realtà, allora ciò che viene realizzato non sarà un vero conseguimento”.
Si è ciò che si comunica.
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