Negli ultimi anni abbiamo assistito a un cortocircuito tra la magistratura e il sistema dei media, per cui ci siamo abituati – nostro malgrado – alla spettacolarizzazione di arresti e processi, intercettazioni e notizie coperte da segreto investigativo buttate in prima pagina, dibattiti che dai giornali rimbalzano sui social determinando la colpevolizzazione preventiva del presunto responsabile dei fatti. Accade con esponenti politici, personaggi pubblici, aziende e manager, ma anche privati cittadini quando parliamo di cronaca nera.
Il processo mediatico precede quello giudiziario, tende a prevaricarlo mettendo a rischio l’imparzialità di chi segue le indagini e la serenità di chi deve poi giudicare, annienta la privacy e la reputazione di chi è coinvolto. Non è una storia nuova: da Enzo Tortora a Mani Pulite, da Daniele Barillà a Mafia Capitale, potremmo fare moltissimi esempi di processi arrivati a sentenza ancora prima di approdare in tribunale. Ermes Antonucci, giornalista de Il Foglio, ne ha raccontati una ventina in un libro appena uscito, ‘I dannati della gogna’.
Non importa chi alla fine è stato condannato e chi ne è uscito innocente, quello che stiamo dicendo riguarda entrambi i fronti, anche se ingenuamente può sembrare meno grave se le accuse vengono poi confermate. Il processo mediatico, soprattutto quando particolarmente feroce, contraddice il principio della presunzione di innocenza che è dichiarato nella nostra Costituzione (l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva, dice l’articolo 27) e oggetto della Direttiva europea nr. 343 del 2016, che il Governo italiano è stato sollecitato a recepire con la legge nr. 53 dell’aprile 2021.
Certamente la presunzione di innocenza e il rispetto della privacy devono essere controbilanciati dal diritto di cronaca, perché è legittimo e utile che i media diano notizia delle vicende giudiziarie e ne seguano i percorsi. Tuttavia, il diritto di cronaca – secondo la dottrina giuridica – può essere esercitato a tre condizioni, ovvero che si racconti la verità, anche solo putativa purché frutto di un lavoro diligente di ricerca, che l’informazione data abbia un’utilità sociale, che si garantisca una forma civile, tanto nell’esposizione dei fatti quanto nella loro valutazione. In pratica, questo significa che non bisogna eccedere lo scopo puramente informativo, lavorare con lealtà e chiarezza, evitare qualsiasi offesa anche indiretta (è il requisito della cosiddetta continenza dell’informazione).
Non è sempre così, purtroppo. Nonostante l’impegno di tanti giornalisti corretti e scrupolosi, le analisi fatte dall’Unione delle Camere Penali italiane e dall’associazione Antigone rivelano che oltre il 60% della copertura mediatica di vicende giudiziarie ha un approccio colpevolista verso gli indagati o un atteggiamento acritico rispetto alle ipotesi dell’accusa. C’è inoltre un’enorme sproporzione tra l’attenzione dei media nella fase preliminare delle indagini e quella che viene dedicata alla fase dibattimentale del processo, ancor peggio alla sua conclusione. Non aiuta il fatto che le sentenze arrivino dopo molti anni, a volta anche dieci, ma è esperienza comune che i paginoni dell’arresto diventino poco più che trafiletti quando si pronuncia la Corte di Cassazione, magari con un’assoluzione definitiva.
La degenerazione del circo mediatico-giudiziario, come lo ha definito Daniel Soulez Lariviere, si evita se tutte le parti agiscono con responsabilità, nel rispetto del proprio ruolo ma consapevoli delle conseguenze che le informazioni possono avere dopo essere diventate di dominio pubblico – e date in pasto ai social dove le opinioni si polarizzano velocemente e il senso critico non abbonda.
Lo aveva scritto già nel 1987 Leonardo Sciascia sul quotidiano spagnolo El País: “Quando l’opinione pubblica appare divisa su un qualche clamoroso caso giudiziario – divisa tra innocentisti e colpevolisti – in effetti la divisione non avviene sulla conoscenza degli elementi processuali a carico dell’imputato o a suo favore, ma per impressioni di simpatia o antipatia. Come scommettere su una partita di calcio o su una corsa di cavalli”.
In tutto questo, quale voce può avere l’indagato e la difesa dell’imputato? Analogamente a quello che accade nelle situazioni di crisi, le prime fasi tendono a essere una ‘reverse story’, in cui la narrazione è quasi del tutto subita. Le litigation PR, nate più di 30 anni fa negli Usa e oggi abbastanza diffuse anche in Italia, possono diventare strategiche nella gestione del processo mediatico e della comunicazione nel corso dell’intero procedimento, con l’obiettivo di tutelare la reputazione dell’azienda e dei soggetti coinvolti e, per quanto lecito e possibile, influire sull’esito e le conseguenze del giudizio (la definizione è di James F. Haggerty).
Ad occuparsi di litigation PR sono spesso gli stessi esperti di comunicazione di crisi, cui servono però competenze aggiuntive in materia giuridica e di contenziosi legali. Non è raro lavorare a quattro mani con gli avvocati e gli studi legali, oppure avere dei consulenti dedicati all’interno degli stessi studi.
La tutela della reputazione richiede la progettazione di uno storytelling molto accurato, che dia conto della posizione dell’assistito rispetto alle responsabilità che vengono contestate e possa sostenere il lavoro dei difensori. Se si parla di questioni complesse, come un reato ambientale o una truffa finanziaria, il ruolo delle litigation PR è anche quello di facilitare la comprensione dell’argomento, dando elementi il più possibile neutrali sia ai giornalisti che seguono il caso, sia attraverso i social o altre occasioni di comunicazione non mediata.
L’intento deve essere quello di promuovere una lettura equilibrata della vicenda, in cui le posizioni dell’accusa e della difesa possano essere accostate senza esacerbare i toni. Vanno senza dubbio rettificate tutte le informazioni false o quelle che, pur corrispondendo al vero, sono pregiudizievoli o diffamatorie.
Il lavoro delle litigation PR deve spingersi oltre le media relations: ci sono infatti molti altri stakeholder che, anche quando la copertura mediatica andrà scemando, continueranno a interessarsi al caso e a comportarsi sulla base dell’opinione che se ne saranno fatti. Pensiamo ai dipendenti dell’azienda, ai suoi clienti e ai business partner, per cui ha senso pensare un piano di comunicazione ad hoc e dei momenti precisi di intervento.
La ricostruzione o il consolidamento della reputazione dopo che il processo si è esaurito, almeno a livello mediatico, è in effetti una fase molto delicata. Si tratta di lavorare sugli interlocutori con cui è necessario recuperare terreno il più rapidamente possibile, e gettare le basi di una nuova fiducia.
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