Per decenni la nostra società si è focalizzata sul tema dell’avere, alimentandosi di un desiderio costantemente crescente di un benessere soprattutto materiale. Le classi più ricche e colte, benché in minoranza, hanno influenzato con i loro consumi e il loro stile di vita l’intero Paese, imitati dalla maggioranza che pur si accontentava di possessi ben più contenuti e gratificazioni anche di poco conto.
Negli ultimi vent’anni, complice il più alto grado di istruzione e preparazione culturale dei nuovi adulti, nonché la diffusione delle tecnologie e degli strumenti di comunicazione digitale, la maggioranza prima silenziosa ha acquisito maggiore individualità e una capacità via via superiore di ragionamento critico, cominciando a mettere in discussione molti dei paradigmi dominanti.
Stiamo peraltro parlando della generazione che ha pagato il prezzo più alto della globalizzazione, delle bolle speculative che si sono succedute dalle dotcom in poi, della crisi economica e del precariato dilagante. Cresciuti anche loro nel mito dell’avere dei genitori, questi giovani non sanno mostrare rassegnazione, ma aggregano intorno a sé rabbia e voglia di rivendicazione.
Questa “normalità anomala”, già animata da profonde contraddizioni, è andata in pezzi con la pandemia, diffondendo uno smarrimento individuale e sociale che riguarda sia la dimensione della salute, sia (e forse ancora di più) quella economica.
Che fare? È opinione comune che lo Stato, non mostrandosi capace di strategie di medio-lungo periodo, non offra risposte convincenti. Le persone tornano quindi a guardare al Sistema Economico, ovvero alle imprese, le uniche che potrebbe avere credibilità e capacità d’intervento.
Alle imprese non chiediamo soltanto di fare il loro lavoro, cioè offrire prodotti di qualità, a prezzi convenienti, servendo bene i clienti. Questo è dato per scontato. Le aziende sono oggi chiamate ad assumersi un’autentica responsabilità sociale, da vari punti di vista, prendendosi cura delle persone e aiutandole a vivere meglio.
A nostro giudizio, considerando l’insieme degli accadimenti e le reazioni innescate, tre sono gli elementi a cui chi si occupa di comunicazione dovrebbe fare particolare attenzione. Innanzitutto la rivisitazione del progetto di vita delle persone, che cercano nuovi equilibri e stanno modificando il loro concetto di benessere, per cui cambieranno molte logiche di relazione, anche con le marche e i consumi.
In secondo luogo, occorre governare il (ri)posizionamento delle imprese, diventate in questo contesto attori sociali ancor prima che economici. Alle aziende viene chiesto di garantire occupazione, che significa sopravvivenza nel presente e opportunità per il futuro, ma anche di integrare il sistema di welfare pubblico sviluppando quei servizi che mancano sul territorio, nonché di dare un contributo decisivo su tutte le problematiche legate all’ambiente.
Infine, serve uno sguardo diverso, certamente più critico, sui veicoli della comunicazione, che dovranno rappresentare il canale serio e autorevole attraverso il quale costruire le nuove relazioni interne ed esterne.
Potrebbero sembrare tre temi diversi, in realtà sono tre tempi di un unico tema, che è la rifondazione di un nuovo equilibrio che va rispettato e partecipato. È condizione essenziale per quelle imprese che vogliono vivere un futuro interessante.
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