La crisi climatica tra sensazionalismo e negazionismo
“In Europa l’estate più calda degli ultimi cento anni”. “Clima, gli scienziati avvertono: solo pochi anni per evitare il disastro”. “La Terra ha la febbre, prepariamoci all’apocalisse”. La narrazione della crisi climatica sui media si nutre molto spesso di sensazionalismo, presentando il problema e i singoli eventi con titoli e toni catastrofici. Due sono i fattori che spingono in questa direzione, ha spiegato il professor Stefano Caserini in una lezione aperta presso l’Università di Parma: da un lato il bisogno di notizie forti, che catturino l’attenzione di un pubblico sempre più distratto, dall’altro la carenza di competenze che permettano una corretta lettura dei dati climatici, per loro natura multidimensionali e altamente variabili.
Per interpretare in modo attendibile la trasformazione del clima sul nostro pianeta bisogna prendere in esame intervalli temporali molto lunghi e correlare tra loro un buon numero di parametri, operazione che richiede conoscenza ed esperienza. Se si considera uno specifico episodio meteorologico o si guarda solo il breve periodo, ad esempio confrontando la variazione delle temperature medie in una certa zona da un anno all’altro, è facile andare fuori strada e virare verso un racconto iper-semplificato e sensazionalista.
Ma la tendenza all’iperbole e al catastrofismo è solo una parte della storia. All’estremo opposto troviamo narrazioni di stampo negazionista, che cercano di rimuovere o minimizzare la crisi climatica. Le evidenze scientifiche e l’esperienza collettiva rendono ormai difficile negare in toto il problema, ma è abbastanza diffuso quello che Stanley Cohen nel suo saggio ‘Stati di negazione’ definisce diniego interpretativo o implicito: si attribuisce al fenomeno solo una parte del suo significato, escludendo tutto quello che implica responsabilità e, di conseguenza, dovrebbe muovere all’azione.
È una sorta di sub-negazionismo, o negazionismo di secondo livello, spesso agito da governi, autorità o portatori d’interesse (pensiamo al settore dei combustibili fossili) in modo pubblico ed esplicito, con l’obiettivo di orientare a proprio favore il racconto della crisi climatica. Potrebbe tuttavia essere anche un meccanismo semi-inconsapevole con cui individui e comunità provano a difendersi di fronte a un problema che mette in crisi lo status quo e per cui non esistono al momento soluzioni facili, né di sicuro successo.
Come suggerito dal professor Marco Deriu, l’intensità della negazione della crisi climatica è tanto più forte quanto più l’informazione genera angoscia e diventa insopportabile, facendo scattare un blocco dell’attenzione o dinamiche di autoinganno. Per scardinare questo tipo di negazionismo bisogna lavorare sull’ansia personale e collettiva, e non bastano i dati pur accuratissimi che la scienza può offrire. Il negazionista tende infatti a rifiutare o ignorare qualsiasi narrazione che contraddica il suo frame prevalente.
Quale linguaggio è allora meglio usare? Quali ingredienti mettere nel piatto per un’efficace comunicazione della crisi climatica? Nel suo recente workshop all’Università IULM di Milano, il climatologo Davide Faranda ne ha indicati tre: la scienza, con i risultati degli studi disponibili, l’esperienza, raccontando situazioni in cui le persone possano riconoscersi, e le soluzioni, per incoraggiare i piccoli ma importanti cambiamenti che possono cambiare la rotta.
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Giornali e media alla prova dell’AI
Tra i pionieri dell’uso dell’AI in ambito giornalistico spiccano il Washington Post con il robot-giornalista Heliograf, e The Guardian, che già nel 2020 pubblicava un editoriale firmato da GPT-3 di OpenAI. Da allora, sempre più testate in tutto il mondo hanno integrato tecnologie di intelligenza artificiale nei propri workflow editoriali, anche se non è semplice quantificarne la diffusione esatta.
Molti quotidiani e agenzie – tra cui Associated Press, Reuters, Bloomberg e Forbes – usano l’AI per automatizzare la scrittura di cronache sportive, report finanziari e aggiornamenti su eventi complessi come le elezioni. In altri casi, come Der Spiegel, l’AI supporta il fact-checking e aiuta i redattori a verificare la veridicità delle fonti prima della pubblicazione.
In Italia, l’impatto dell’AI è tra le novità del nuovo Codice deontologico dei giornalisti, in vigore dal 1° giugno 2025, che impone la massima trasparenza: l’AI non può sostituire il lavoro umano e va sempre dichiarata e supervisionata. Un esempio virtuoso è quello de Il Sole 24 Ore, che utilizza l’AI per il data journalism e la creazione di inchieste e dossier basati sull’analisi di grandi basi di dati (Lab24, Info Data). Interessante, ma non esente da critiche, anche la sperimentazione condotta da Il Foglio, che ha lanciato “Il Foglio AI”, un’edizione interamente generata con strumenti di intelligenza artificiale.
Cosa ne pensano i giornalisti? Secondo una recente indagine della Thomson Reuters Foundation, il 54% ritiene che l’AI abbia già trasformato in modo significativo il lavoro delle redazioni. Il 42% guarda con ottimismo al suo impiego futuro, pur segnalando criticità etiche ancora da risolvere.
I lettori, invece, si mostrano più scettici. Un sondaggio del Pew Research Center indica che il 50% degli americani teme che l’AI peggiorerà la qualità delle notizie. Il 41% la giudica meno efficace nella scrittura e il 66% esprime forti preoccupazioni per il rischio di disinformazione.
Ma l’AI non riguarda solo i giornalisti e il lavoro editoriale. Con l’obiettivo di personalizzare sempre di più e meglio l’esperienza dei lettori, gli algoritmi di raccomandazione – come quelli adottati da New York Times e BBC – analizzano i comportamenti di navigazione per suggerire articoli pertinenti, aumentare l’engagement e ottimizzare il tempo speso sul sito. In parallelo, strumenti di AI generano automaticamente metadati SEO e contenuti social, migliorando la diffusione online, come nel caso de Il Sole 24 Ore.
L’AI si sta rivelando utile anche per rendere i contenuti più accessibili e inclusivi. Al Festival del Giornalismo di Perugia, Matthew Garrahan ha raccontato cosa sta facendo il Financial Times: dall’agente Ask FT per fare ricerche avanzate negli archivi del giornale alle traduzioni in più lingue per i lettori stranieri, dalla generazione automatica di titoli, sottotitoli e abstract ai contenuti per le persone ipovedenti, la testata sta provando l’AI anche per il monitoraggio e la moderazione dei commenti pubblicati sotto le storie. È ancora presto per misurare i risultati in termini di soddisfazione e fidelizzazione del pubblico, ha sottolineato Garrahan, ma i primi riscontri sono incoraggianti.
Una delle domande aperte riguarda l’impatto dell’AI sui modelli di business degli editori: se la risposta che cerco posso chiederla a ChatGPT, perché dovrei pagare un giornale? Per Garrahan, la risposta non è nella tecnologia, ma nel valore del contenuto: “Nessun algoritmo, almeno per ora, può sostituire la qualità dell’informazione prodotta da giornalisti competenti e fonti affidabili”.
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Violenza di genere, quando a colpire è lei
Oltre il 90% dei crimini violenti è compiuto da uomini e le donne rappresentano poco più del 4% della popolazione delle carceri italiane, rileva l’associazione Antigone nel suo rapporto sulle donne detenute, pubblicato per la prima volta nel 2023.
Il basso tasso di criminalità femminile è uno dei motivi che spiega perché, fino ad anni recenti, il fenomeno sia stato poco studiato. Alcune teorie, come quella di Freda Adler negli anni Settanta del Novecento, hanno provato a legarla all’emancipazione femminile, ipotizzando che la maggior partecipazione delle donne alla vita sociale e lavorativa aumenti la possibilità di incorrere in comportamenti devianti e, quindi, faccia aumentare la delinquenza femminile. Secondo la criminologa americana, raggiungendo la parità tra i generi avremmo assistito all’equiparazione dei crimini commessi da uomini e donne.
Benché ampiamente smentita dai fatti (anche nelle società più avanzate sui temi della parità, le donne delinquono meno degli uomini, compiono reati meno gravi e hanno meno probabilità di recidiva), questa teoria ha influenzato il modo in cui i media parlano dei reati al femminile. Secondo la scrittrice Giulia Blasi e la videoreporter Rai Amalia De Simone, che al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia hanno condotto un panel dedicato proprio a questo tema, nel racconto mediatico affiorano molto spesso pregiudizi di genere e stereotipi di stampo patriarcale.
L’analisi dei frame narrativi più ricorrenti mostra che la vittima maschile non è quasi mai colpevolizzata, nemmeno quando la violenza si sviluppa in un contesto di accertati abusi e maltrattamenti ai danni della donna. Questo è sensibilmente diverso da ciò che accade quando è lei a subire: per l’uomo carnefice si tendono a dare giustificazioni che diventano moventi (“motivazioni comprensibili” avrebbero mosso Salvatore Montefusco, condannato a 30 anni di reclusione per un duplice femminicidio), mentre alla donna vittima è spesso imputata una certa dose di corresponsabilità (“se l’è cercata”) con un'attenzione morbosa al suo stile di vita.
Della violenza femminile si indaga poco la causa, molto meno di quanto i media fanno a parti invertite, e quasi mai l’atto è descritto come un raptus (questo frame narrativo è peraltro in calo anche nel racconto della violenza maschile). Se è lei a colpire, la sottolineatura è spesso sulla devianza e l’orientamento sessuale, in particolare nei casi di violenza agita da persone LGBTQ+. Nel descrivere i colpevoli, c’è tanta empatia quando è uomo (himpathy), pochissima quando è donna.
Altro frame comune per descrivere l’autrice della violenza è l’uso di epiteti legati al mondo animale: celebri, ad esempio, i casi della Belva di San Gregorio e delle numerose “mantidi” protagoniste della cronaca nera (la Mantide di Casandrino, la Mantide di Parabiago, la Mantide della Brianza, ecc.). Un meccanismo diverso, ma con effetto analogo, è quello che porta i media a infantilizzare le donne eliminandone il cognome. Leggiamo così “Ergastolo Turetta, le motivazioni” nei titoli sulla sentenza a carico del femminicida Filippo Turetta, ma “Aggressioni acido: 16 anni per Martina, 9 anni e 4 mesi a Magnani” viene usato per Martina Levato e il suo complice.
Sembra tuttora mancare una struttura per interpretare e raccontare la criminalità femminile, ha detto Giulia Blasi chiudendo il panel. Mentre la violenza degli uomini tende a essere normalizzata, i media faticano a trovare le parole per atti e comportamenti commessi da donne che rompono lo schema dell’angelo del focolare, dell’essere fragile ed empatico. La sfida della narrazione della violenza di genere è aperta anche su questo fronte.
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Violenza di genere, ancora donne colpevoli e troppa himpathy
Oltre 3.600 articoli pubblicati nel 2024 su 25 testate nazionali. Da qui è partito l’Osservatorio STEP, coordinato dalla professoressa Flaminia Saccà dell’Università Sapienza di Roma, per indagare il racconto giornalistico della violenza contro le donne. Rispetto alla precedente edizione, “ci sono stati dei miglioramenti, leggeri ma importanti”, spiega Saccà ad Alley Oop – Il Sole 24 Ore, segno di una maggiore consapevolezza del ruolo e della responsabilità che il linguaggio esercita nel formare la percezione del fenomeno e dei singoli casi.
Secondo l’Osservatorio, oggi le notizie non sono più confinate alle pagine di cronaca (con incursioni nelle prime pagine per i fatti più efferati), ma hanno conquistato un diverso spazio e una nuova collocazione, trainando spesso approfondimenti e riflessioni a cura di esperti. Altro cambiamento positivo è il crescente utilizzo dei nomi dei reati – femminicidio, stupro di gruppo, stalking, ecc. – per guidare chi legge nella corretta ricostruzione dei fatti. Un buon numero di articoli relativi ai femminicidi continua tuttavia a parlare di “tragedia”, azzerando o attenuando la responsabilità del reo, ma sta finalmente diventando marginale il “raptus”, che peraltro non ha alcun fondamento scientifico: solo il 3% degli articoli lo riporta come motivazione della violenza.
Resta forte l’agenda setting, ovvero la costruzione di un racconto che privilegia alcune forme di violenza – quelle più eclatanti, dunque più spendibili – e restituisce una fotografia non del tutto aderente alla realtà. Confrontando i dati raccolti dalle questure nel 2024 con gli articoli pubblicati, l’Osservatorio rileva infatti che le violenze domestiche sono il reato più denunciato (50% dei casi), ma hanno solo il 17% della copertura mediatica. Quasi il 36% delle denunce riguarda atti persecutori e stalking, che troviamo però soltanto nell’8% degli articoli. C’è discrepanza anche per le violenze sessuali (14% delle denunce, 20% degli articoli) e soprattutto per i femminicidi, che sono il reato più presente sulla stampa (25% degli articoli analizzati), ma rappresentano meno dello 0,3% dei casi reali.
Rispetto alla qualità del racconto, non si può che notare la persistenza di frame narrativi ancora orientati alla colpevolizzazione delle vittime, tanto nelle parole quanto nelle immagini. Resiste il “se l’è cercata” e, quando il comportamento e lo stile di vita della donna non sono prove sufficienti, c’è il torto di non essersi sottratta alla relazione tossica o non aver riconosciuto la situazione di pericolo. È successo ad esempio con Aurora Tila, che nemmeno la madre – colpevole anche lei – “ha saputo proteggere”, ma anche con Ilaria Sula e Sara Campanella, che “non avevano denunciato”.
Nella rappresentazione dell’autore della violenza, precisa Saccà che “cominciamo finalmente a vedere nei titoli una maggiore presenza dell’assassino: questo è importante per far comprendere che la violenza è agita da un uomo e non è un accidenti che capita alle donne”. Tuttavia, se per qualunque altro tipo di reato la comprensione è tutta per la vittima, nel racconto della violenza di genere l’Osservatorio documenta una marcata tendenza all’himpathy, ovvero a manifestare empatia nei confronti del colpevole o presunto tale. È il frame, descritto dalla filosofa australiana Kate Manne, che mette l’offender in una prospettiva autoassolutoria e vittimistica e ritroviamo quando, ad esempio, i media sottolineano come lui pianga o sia dispiaciuto, oppure che il fatto sia inspiegabile visto che era un “bravo ragazzo”, un “padre modello”, un “onesto lavoratore”.
L’himpathy è particolarmente evidente nei femminicidi di donne con disabilità, malate o anziane, rappresentato addirittura come gesto altruistico. In 149 casi analizzati, l’Osservatorio evidenzia una serie di aggettivi riferiti al femminicida – mite, gentile, tranquillo, sconvolto, esasperato, ecc. – che qualificano la violenza come conseguenza del faticoso esercizio di cura della moglie o compagna non autosufficiente. Il “raptus” torna in questi casi tra i moventi più citati, indicato nel 34% degli articoli.
È indubbio che il femminicidio di Giulia Cecchettin abbia cambiato le carte in tavola. I dati parlano di una maggiore propensione delle donne a denunciare o affidarsi ai centri antiviolenza, e l’Osservatorio STEP documenta anche il cambiamento della rappresentazione giornalistica. Certo la svolta non è ancora compiuta e, mentre i media lavorano sulle raccomandazioni del Manifesto di Venezia, molto può essere fatto anche nelle scuole, aiutando ragazze e ragazzi a riconoscere e contrastare le narrazioni tossiche.
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L’elefante nella stanza
In alcuni settori, come quello finanziario, gran parte delle aziende ha programmi strutturati di risk assessment e risk management, stimolati anche dalla necessità di rispondere a precisi obblighi normativi. Secondo l’Institute of Risk Management, l’analisi e la gestione del rischio è prassi nel 75-80% delle grandi imprese che operano nelle economie più sviluppate, ma la percentuale crolla al di sotto del 50% se consideriamo le realtà di medie e piccole dimensioni.
Il risk management – ovvero il processo sistematico che permette di identificare, analizzare e gestire i rischi che un’azienda potrebbe affrontare in vari ambiti, inclusa la reputazione – è però un passaggio fondamentale per essere consapevoli delle proprie vulnerabilità e poter intervenire con il necessario anticipo.
Le imprese si confrontano con rischi legati alle specifiche caratteristiche dei loro processi e prodotti, dei mercati in cui sono presenti, del loro modello organizzativo. Ci sono poi dei rischi di portata più generale, che possono toccare un’azienda indipendentemente dal settore o dall’industria. Pensiamo ai cambiamenti climatici, che hanno alzato moltissimo la probabilità di essere colpiti da disastri naturali e fenomeni meteo estremi. Oppure al cybercrimine, che oggi è una minaccia concreta con la possibilità di veder interrotti o compromessi i propri sistemi informatici, oppure violata la confidenzialità di dati e la sicurezza delle applicazioni.
Sempre più le imprese devono gestire filiere e supply chain di portata internazionale, il che comporta una forte esposizione alle tensioni geopolitiche, agli shock dovuti all’introduzione di dazi e l’innesco di guerre commerciali, alle difficoltà relative alla logistica, ai trasporti e alle rotte commerciali.
Quanti rischi si trasformano in problemi e, da qui, in situazioni di crisi? Il passo dal risk al crisis management è piuttosto breve: tornando alle stime dell’Institute for Crisis Management sulle smoldering crisis, la metà delle crisi che le aziende devono gestire nasce proprio da rischi non riconosciuti, sottovalutati oppure non gestiti in modo tempestivo.
Perché la cultura della prevenzione fa ancora così fatica a imporsi? “La prevenzione non è sexy. È noiosa. E negarne l’esigenza è fin troppo facile”, scrive l’Institute for Crisis Management sul suo blog. Tante aziende dicono “A noi tanto non succederà”, oppure pensano di essere troppo piccole o troppo poco visibili per attirare l’attenzione dei media. Ma la crisi non è tale solo se diventa notizia. Può fare molto male anche quando si diffonde tramite il passaparola che allontana i clienti, i rumors che demoralizzano i collaboratori, le speculazioni che fanno ritirare gli investitori.
Mettere a fuoco l’elefante nella stanza è essenziale. Richiede competenza, tempo e investimenti ma, dice ancora l’Institute of Risk Management, in caso di crisi, le organizzazioni con alle spalle buone pratiche di risk management sopportano costi fino al 20-30% più bassi.
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A lezione di Content Studies
L’utente tipico di Internet trascorre online più di 6 ore al giorno, dice il Digital 2024 Global Overview Report di We Are Social. Considerando una media quotidiana di 400 minuti per persona, quest’anno il mondo trascorrerà sul web un totale di 780 trilioni di minuti. Per fare cosa? Comunicare, informarsi, utilizzare servizi di vario tipo, giocare… districandosi tra un’impressionante mole di contenuti che si moltiplicano in Rete di giorno in giorno, di ora in ora, di minuto in minuto.
Non è solo questione di quantità. È cambiato il formato dei contenuti a cui siamo esposti, un mix di testi, immagini, audio, video ed esperienze interattive come i videogiochi. È cambiato il modo in cui questi contenuti vengono prodotti e distribuiti: solo una parte è oggi creata dall’uomo. I nuovi strumenti di Intelligenza Artificiale Generativa (GenAI) hanno infatti reso possibile la produzione automatizzata e su larga scala di contenuti che, grazie allo sviluppo ultrarapido della tecnologia, hanno una qualità sempre più elevata.
Il filosofo Luciano Floridi, che già aveva coniato il neologismo onlife per descrivere il nostro mondo iper-connesso e il superamento della distinzione tra online e offline, parla di una società post-Vitruviana, dove dobbiamo accettare il fatto che non tutti i contenuti e i loro significati siano umani. Dobbiamo cioè riconoscere che l'AI è ora in grado produrre contenuti indistinguibili da quelli umani ma altrettanto validi, dando un senso del tutto nuovo al concetto di autenticità.
Secondo Floridi, le metodologie e le prassi che abbiamo finora usato per governare i contenuti sono oggi insufficienti perché non ci permettono di comprendere le trasformazioni che stiamo vivendo. Nel suo ultimo paper, preparato per il Digital Ethics Center dell’Università di Yale, Floridi getta le basi per quella che potrebbe diventare una nuova disciplina accademica: i Content Studies.
Di cosa si tratta? I Content Studies mettono insieme le conoscenze maturate dalle scienze umane, sociali e computazionali e introducono un metodo innovativo per studiare e modellare il futuro dei contenuti. Avere un unico framework analitico consente, sostiene Floridi, un approccio multidisciplinare molto più solido da applicare all’intero ciclo di vita di un contenuto, che comprende la sua ideazione, la produzione, la distribuzione, il consumo e la possibile trasformazione o manipolazione.
Al di là dell’interesse accademico, sono tante le applicazioni che il professore intravede, dal contrasto della disinformazione all’approfondimento dei pregiudizi algoritmici, dallo sviluppo di materiali educativi più inclusivi alla produzione di notizie di miglior qualità.
La strada per ottenere il consenso e avviare questa nuova disciplina non sarà breve, ma Floridi spera non passi troppo tempo prima di poter andare a lezione di Content Studies. Ci insegnerà a navigare le nuove complessità della creazione e del consumo di contenuti, e a creare una società digitale più etica, inclusiva e informata?
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In fuga dalle notizie
I dati del Digital News Report del Reuters Institute indicano che sono in molti a rifiutare categoricamente tutte le fonti di informazione, inclusi i giornali, le trasmissioni televisive o i feed dei social media. Altri agiscono in modo selettivo, con il 53% che sceglie di accedere alle notizie meno frequentemente e il 32% che evita determinati argomenti.
Le ragioni sono varie. Un fattore comunemente citato è il tempo: molti pensano che informarsi richieda troppo tempo e si limitano a una veloce sbirciata ai titoli. Ma questa non è probabilmente la motivazione principale.
Nel libro ‘Avoiding the News‘, gli autori Benjamin Toff, Ruth Palmer e Rasmus K. Nielsen spiegano che la giustificazione più ricorrente è “non sono io, sono le notizie”. I media sono percepiti come distanti dalla propria microrealtà e difficili da capire, in più fanno sentire le persone impotenti di fronte a problemi per cui non possono fare nulla. In un’epoca in cui l’informazione è pervasiva e abbondante, gli individui sono dunque sopraffatti dalla quantità di notizie disponibili e insoddisfatti dei contenuti.
Da considerare anche il possibile impatto negativo sul benessere personale. I media parlano di tragedie, conflitti e crisi, ospitano storie politiche e sociali fortemente polarizzate. Le persone preferiscono la disconnessione per proteggersi da informazioni ritenute angoscianti e deprimenti, ma anche per evitare di trovarsi esposte a fatti e opinioni che mettono in discussione le proprie convinzioni. Questo significa perdere contatto con una parte dell’attualità e fuggire dal confronto con chi la pensa diversamente, ma l’evitamento selettivo è una buona strategia per chi vuole restare nella propria comfort zone.
Anche la diffusione del sensazionalismo e della disinformazione ha generato una certa diffidenza verso i media. Alcuni scelgono di starne lontani piuttosto che rischiare di essere ingannati o manipolati da informazioni di cui non sanno verificare la correttezza.
Il fenomeno del rifiuto delle notizie è stato discusso lo scorso aprile al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, dove si è provato a rispondere a questa domanda: possiamo far cambiare idea a chi fugge dall’informazione? Esiste un modo per migliorare la produzione e la diffusione delle notizie?
Può sembrare ovvio, ma la prima strategia è proporre storie semplici, concise e utili. Le notizie dovrebbero essere comprensibili anche quando affrontano questioni complesse e non richiedere troppo tempo né sforzo per essere digerite. Questo è ben dimostrato da esperienze di successo come gli explainer della BBC, la newsletter britannica ‘The Knowledge’ o il podcast ‘Morning’ de Il Post.
Visto le persone tendono ad apprezzare il giornalismo di servizio, funziona l’integrazione di contenuti costruttivi, pratici e orientati alla soluzione. Le notizie negative attirano ancora l’attenzione (almeno se parliamo di un pubblico maturo) ma, quando si tratta di argomenti come il cambiamento climatico, sappiamo che le narrazioni catastrofiche spingono le persone verso il disimpegno. Portare soluzioni e un po’ di speranza può quindi essere una buona idea.
Ha senz’altro senso sperimentare formati digitali più coinvolgenti, con contenuti video o audio. Ma ha senso anche investire in redazioni più inclusive e aperte alla diversità: non è solo una questione di equità, ma un modo efficace per raggiungere comunità che trovano i media mainstream irrilevanti e lontani dal loro sentire. Tra gli esempi presentati a Perugia, interessante quello del servizio pubblico canadese CBC, che ha cominciato a rivolgersi alle comunità indigene con una specifica strategia di contenuti.
Il rifiuto diffuso delle notizie è un problema serio. Se concordiamo con il motto del The Washington Post — “La democrazia muore nell’oscurità” — contribuiamo a diffondere l’educazione ai media e sosteniamo gli editori e i giornalisti che lavorano per tenere le persone informate e coinvolte.
Le parole giuste
“Ma io intendevo dire….”: trovare le parole giuste per esprimere un concetto o un sentimento non è sempre facile, sia quando la conversazione è personale, sia quando a parlare è il portavoce di un’azienda, un partito o un’istituzione. Dalla difficoltà di far coincidere il nomen (il nome, il termine che si usa) con la res (la cosa che si vuole comunicare) nascono tante incomprensioni, con la necessità – sempre più frequente – di intervenire a posteriori per chiarire il malinteso, correggere una dichiarazione, smorzare l’incendio social che nel frattempo potrebbe essere divampato.
Ma perché non sempre riusciamo a tradurre il nostro pensiero nel linguaggio appropriato? Secondo Confucio, sono tre gli errori che si possono fare quando si parla. Come riassume il filosofo Vito Mancuso nel saggio I quattro maestri, il primo errore da evitare è la precipitazione, cioè la fretta di dire qualcosa quando non è il momento o non se ne sa abbastanza. Il secondo, per certi versi speculare, è l’omissione, in cui si cade quando non si dice quello che si sa benché sia il momento di farlo. C’è poi la cecità, che riguarda l’incapacità di adattare il nostro parlare al contesto e allo stato d’animo di chi ascolta (ovvero di essere in sintonia con il target, volendo usare il lessico del marketing).
La difficoltà di trovare le parole giuste può complicare le relazioni interpersonali, ma le conseguenze possono essere molto serie anche in azienda, a scuola, in piazza, in televisione e sui social. Se è vero che ne uccide più la lingua che la spada, la comunicazione merita di essere gestita sempre con grande senso di responsabilità, valutando accuratamente ciò che si dice, dove, quando e come lo si dice.
Scrive Gianrico Carofiglio in Passeggeri notturni: “Le parole che utilizziamo possono avere un impatto straordinario non solo sulle nostre vite individuali, ma anche su quelle collettive. Le parole creano la realtà, fanno – e disfano – le cose; sono spesso atti di cui bisogna prevedere e fronteggiare le conseguenze, in molti ambiti privati e pubblici”.
Un buon comunicatore dovrebbe saper dare il nome giusto alle cose. Confucio riferiva questa capacità tra le competenze essenziali di ogni politico. Negli Analecta, il testo che secondo la tradizione raccoglie le testimonianze dei suoi insegnamenti, c’è un passo – anche questo riportato da Mancuso – dove un discepolo chiede al maestro quale sarebbe stato il primo provvedimento che avrebbe preso se fosse stato al governo. Confucio non esita a rispondere che la priorità sarebbe stata la rettificazione dei nomi: “Se i nomi non aderiscono al proprio significato, i discorsi saranno privi di rapporto con la realtà; se i discorsi sono privi di rapporto con la realtà, allora ciò che viene realizzato non sarà un vero conseguimento”.
Si è ciò che si comunica.
Il gergo aziendale, comodo ma…
Pensare fuori dagli schemi. Essere dirompenti. Agire come una startup. Quando sentiamo tre persone usare queste espressioni, probabilmente intendono dirci qualcosa di abbastanza simile, ma le parole che scelgono suggeriscono anche da quale organizzazione provengono. Ogni settore, azienda e professione ha infatti il suo gergo.
Molti di noi non amano il gergo e, appena lo riconoscono, lo etichettano come pretenzioso, superfluo, difficile da capire. Ciò nonostante, il gergo è una costante di tutte le organizzazioni e crea un codice linguistico condiviso tra i suoi membri. Il gergo è fatto di termini, espressioni, acronimi, metafore e modi di dire che in genere richiedono un background comune per essere compresi fino in fondo.
Può essere fastidioso, ma è anche utile. Nella comunicazione aziendale contribuisce a rendere più efficienti e precise le interazioni tra pari e fra team, rafforza i legami sociali e favorisce la costruzione di un’identità e una cultura condivisa. Quando si è parte di un’organizzazione o un gruppo professionale, è più semplice e conveniente adottare il linguaggio che anche gli altri usano.
Alcuni ricercatori americani hanno però dimostrato che esiste un’altra ragione, in genere inconscia, per usare il gergo: si tratta dell’insicurezza e del desiderio di acquisire uno status professionale più elevato. I test che hanno condotto mostrano che le persone meno sicure di sé tendono a conformarsi più frequentemente al gergo aziendale e persino a imitare il linguaggio del proprio capo. Analogamente, molti tendono a compensare uno status inferiore con il gergo, nel tentativo di darsi un tono e offrire un’idea migliore di se stessi.
Dobbiamo sempre fare attenzione all’effetto della nostra comunicazione su chi ci ascolta. Usare o meno il gergo deve quindi essere una scelta consapevole. Il gergo potrebbe essere una buona idea per velocizzare la comunicazione interna, specie se stiamo parlando con colleghi esperti di un argomento tecnico, oppure per consolidare il senso di appartenenza.
Ma potrebbe essere un errore se rende la comunicazione incomprensibile a un interlocutore esterno all’organizzazione, perché potrebbe ritorcersi contro di noi e generare equivoci, rifiuto e chiusura. Il gergo può far sentire escluse le persone, sembrare vuoto o persino falso, manipolatorio.
Per capire se e quando il gergo rappresenta una risorsa o un potenziale boomerang, proviamo a usare questa semplice check list:
- Pensiamo agli interlocutori e al contesto
A chi stiamo parlando o scrivendo? Riusciranno a capire il significato delle parole, le espressioni e gli acronimi che usiamo? Hanno lo stesso nostro background?
In certe situazioni, come una riunione interna o una presentazione commerciale, un po’ di gergo (non troppo…) può aggiungere autorevolezza, dunque essere rassicurante. Se però affrontiamo un pubblico più ampio ed eterogeneo, sarebbe meglio usare un linguaggio chiaro e privo di ambiguità. Se dovessimo dirlo con un acronimo, per giunta inglese… meglio che il nostro discorso sia KISS, ovvero semplice e sintetico (Keep It Simple and Short).
- Guardiamoci allo specchio
Abbiamo mai riletto le nostre mail, i documenti o le presentazioni? O riascoltato la registrazione di un nostro discorso? Come suonano, quale impressione danno?
Se esiste un modo più semplice, non gergale, per dire la stessa cosa, sarebbe meglio rivedere il nostro linguaggio. Se non siamo certi dell’efficacia della nostra comunicazione, proviamo a confrontarci con qualcuno di cui ci fidiamo.
- Mettiamoci alla prova
Non c’è miglior modo di migliorare le nostre capacità comunicative che mettersi alla prova. Quando ci prepariamo per una presentazione o un incontro importante con interlocutori interni o esterni, prendiamo del tempo per fare delle prove, facendo attenzione al linguaggio verbale (incluso il gergo) nonché all’uso della voce, la postura e la gestualità.
Il web e l’illusione dell’utente attivo
George Gerbner non trovò evidenze immediate ma formulò la ‘teoria della coltivazione’, secondo cui la TV è in grado nel lungo periodo di modellare la nostra percezione della realtà, facendoci desiderare un mondo più simile a quello che vediamo sullo schermo.
La teoria parte da un presupposto molto preciso: essendo un media di massa e monodirezionale, la TV parla a un pubblico passivo, che non può avere alcuna forma di interazione con l’emittente del messaggio. L’arrivo del web 2.0 e dei social ha cambiato il paradigma e aperto finalmente la strada a un utente attivo, che può navigare, creare e distribuire i propri contenuti, commentare e partecipare alla conversazione.
Ma siamo davvero di fronte a un utente attivo? Non esattamente.
In linea teorica, l’utente avrebbe gli strumenti per accedere a una quantità di informazioni ben più ampia di quella disponibile ai tempi di Gerbner, potrebbe confrontare fonti diverse, usare il senso critico per costruire una propria visione del mondo. In pratica, – e questo accade per due ragioni principali.
Intanto perché i contenuti disponibili online sono troppi e le persone, complice anche la bulimia di informazione legata alla pandemia, hanno perso interesse per le notizie. L’acquisto e la lettura dei giornali di carta sono in continuo calo, ma anche i siti di news hanno più di una difficoltà. Secondo l’ultimo rapporto del Reuters Institute for the Study of Journalism, solo 1 persona su 4 accede direttamente ai portali o le app dei giornali, la larga maggioranza si imbatte nelle notizie riportate dai social o mentre cerca qualcosa online.
“Prima erano le persone che andavano a cercare le notizie, ora sono le notizie che vanno a cercare le persone”, ha ben sintetizzato Giulia Balducci, responsabile dei canali social de Il Post in una recente Lezione sul giornalismo. Lo stesso Reuters Institute conferma che il 56% degli utenti Facebook vede scorrere articoli e video notizie mentre si trova sulla piattaforma per altre ragioni.
L’utente è quindi più passivo perché le notizie arrivano mentre sta facendo altro, dunque non è particolarmente interessato e non presta troppa attenzione (a meno che non sia qualcosa di sensazionale con un titolo clickbait, ma questa è un’altra storia).
Non solo. Se il consumo di informazione tende a essere casuale, dobbiamo ricordare che le notizie dai social non capitano a caso. Entrano infatti in gioco gli algoritmi, che scelgono quello che vediamo sul web e i social e ci propongono contenuti sempre più vicini alle nostre convinzioni, abitudini, desideri e persino emozioni. L’utente è passivo anche perché tende a chiudersi in una filter bubble, in cui le opinioni sono polarizzate e pericolosamente aderenti a quello con cui già siamo d’accordo.
La trappola della disinformazione è in agguato. E l’idea di un utente attivo e consapevole si è – ahinoi – rivelata un’illusione. Si può invertire la rotta?
“Su base collettiva ci può essere una presa di coscienza propedeutica a innescare una maggiore attenzione e azioni più concrete in difesa della buona informazione, ma se il nostro obiettivo è migliorare il nostro habitat informativo e contrastare quotidianamente la disinformazione questo non può che essere un impegno individuale”, ha scritto Matteo Grandi presentando il suo saggio La verità non ci piace abbastanza. “Se vogliamo essere davvero informati dobbiamo diventare o tornare a essere fruitori attivi: cercando, dubitando, verificando”.